Si era fatto tardi e Falcón disse loro di smettere. Tornò aña Jefatura. Il baule trovato nella mansarda di Salgado era già lì. Prese la pellicola e la inserì nel proiettore di Raúl Jiménez, già pronto. Il film era probabilmente un regalo, forse dello stesso Jiménez. Consisteva in sette sequenze di Ramón e di Carmen, felici in ogni ripresa. Evidentemente Salgado adorava sua moglie; lo sguardo che le rivolgeva quando la donna si girava verso la cinepresa e il modo in cui i suoi occhi indugiavano sulla guancia di lei non lasciavano dubbi in proposito.
Falcón rimase seduto al buio in compagnia della luce tremolante delle immagini. Non riusciva a controllarsi, ma non c'era nessuno per cui doversi controllare e perciò pianse, senza sapere perché e disprezzandosi per questo, come era solito disprezzare il pubblico che piagnucolava per il rozzo sentimentalismo degli spettacoli cinematografici.
ESTRATTI DAI DIARI DI FRANCISCO FALCÓN
2 novembre 1946, Tangeri
Ieri è venuto da me un americano. Un campione di umanità di notevoli dimensioni. Si è presentato come Charles Brown III e mi ha chiesto di vedere i miei lavori. Parlo meglio inglese da quando il Café Central si è riempito di americani. Non voglio che frughi tra i miei disegni, così gli dico che desidero mostrarglieli per bene e di tornare nel pomeriggio. Questo mi dà il tempo di scoprire da R. che quel tipo rappresenta Barbara Hutton, la nuova regina della casbah. Sistemo i lavori che voglio mostrargli, quando si ripresenta entriamo nello studio e io dico: «È tutto in vendita tranne quello», cioè il disegno di P.
Corrono voci che dentro il palazzo di Sidi Hosni vi siano ricchezze al di là di ogni immaginazione, perfino dell'immaginazione di R. In ognuna delle trenta stanze sembra che si trovi un orologio da caminetto di Van Cleef Arpels costato diecimila dollari. Chiunque sia disposto a spendere un terzo di milione di dollari per sapere che ora è non può che giudicare le cose unicamente sulla base del loro prezzo. «Non ti comprerà un disegno se chiederai solo venti dollari», dice R. «Non sa nemmeno che cosa siano venti dollari, per lei equivalgono a un centavo per noi.» Ribatto che non ho mai venduto nulla nella mia vita. «Allora non devi vendere il tuo primo lavoro a meno di cinquecento dollari.» Mi insegna tecniche di vendita che io metto in pratica. Seguo Charles Brown nel giro dello studio, parlando dei miei lavori, ma capisco benissimo il suo desiderio spasmodico di tornare al disegno di P. Alla fine mi chiede. «Tanto per curiosità, quanto costerebbe il disegno a carboncino del nudo?» Gli dico che non è in vendita. Non ha prezzo. Lui continua a ripetere «tanto per curiosità» e io dico che non lo so. Torna davanti al disegno. Io faccio come ha detto R. e non lo seguo, ma rimango a fumare all'altro capo della stanza con l'aria di uno che si sta divertendo, anche se in realtà vorrei soltanto scoppiare come un pallone pieno d'acqua in modo che di me rimanga soltanto una pozza di gratitudine e una vescica.
«Sa», dice l'americano, «è tutto molto interessante. Mi piace. Davvero. L'intersecarsi delle forme nella tradizione moresca, il caos organizzato, i paesaggi desolati. Mi danno emozione. Ma qui non si tratta di me, io compro per i miei clienti e i miei clienti non vogliono cose intellettuali, fredde… non i clienti che vengono a Tangeri. Questi vengono qui per… come posso dire? Vengono per la promessa dell'Oriente.»
«Sulla punta nordoccidentale dell'Africa?»
«È un modo di dire», fa lui, «significa che vogliono qualcosa di esotico, di sensuale, di misterioso… già, è il mistero che cercano. Perché 'questo' non è in vendita?»
«Perché è importante per me. È uno sviluppo nuovo e recente.»
«Sì, lo capisco. Gli altri disegni sono perfetti… un'osservazione meticolosa. Ma questo… questo è diverso. Svela e, sì, proibisce. Forse è questo, la natura del mistero è che rivela qualcosa di sé, attira, ma alla fine proibisce l'accesso definitivo alla conoscenza.»
Per caso Charles Brown ha fumato? mi domando. Ma è sincero, di nuovo insiste per avere un prezzo, e io non cedo. Mi dice che il suo cliente deve assolutamente vedere questo lavoro. Io rifiuto di farlo uscire dallo studio. Termina la discussione dicendo: «Stia tranquillo, porterò la montagna a Maometto».
Se ne va, dopo avermi stretto la mano umidiccia. Tremo per l'eccitazione, sono in un bagno di sudore tanto che mi spoglio completamente e mi stendo, nudo, sul pavimento. Fumo una sigaretta di hashish, una della mezza dozzina che mi preparo tutte le mattine. Guardo il disegno di P. Priapo non è nulla al mio confronto, e, come per telepatia, arriva un ragazzo mandatomi da C, che dà sfogo alle valvole.
4 novembre 1946, Tangeri
Rimango nella mia camera per due giorni in uno stato di voluta noncuranza, l'orecchio addestrato e perfettamente sintonizzato sul più lieve colpetto alla porta di casa. Mi addormento e quando qualcuno bussa davvero mi proietto fuori dal sonno come un uomo appena estratto dalla nave che affonda. Armeggio con il chiavistello e cerco di vestirmi allo stesso tempo, una scena comica, perché a svegliarmi è stato il ragazzo di casa che ora è in piedi accanto al mio letto con una busta in mano. All'interno un biglietto con caratteri dorati in rilievo, un biglietto di Barbara Woolworth Hutton. La signora scrive di suo pugno per chiedere il permesso di fare visita a Francisco González nel suo studio il 5 novembre 1946 alle 14.45. Mostro il cartoncino a R. che rimane impressionato, lo capisco benissimo. «C'è un problema», dice. A R. piacciono i problemi e per questo ne crea in continuazione. Il problema è il mio nome.
«Nominami un González che abbia fatto qualcosa di notevole nel mondo dell'arte», dice R.
«Julio González, lo scultore», dico.
«Mai sentito», dice R.
«Lavorava con il ferro, forme geometriche astratte. È morto quattro anni fa.»
«Sai che impressione fa a me Francisco González? L'impressione di un venditore di bottoni.»
«Perché di bottoni?» domando, ma lui mi ignora.
«Qual è il nome di tua madre?»
«Non posso usare il nome di mia madre», dico.
«Perché no?»
«Non posso e basta.»
«Ma qual è?»
«Falcón», rispondo.
«No, no, no, que no… esto es perfecto! Francisco Falcón. Da ora in poi questo sarà il tuo nome.»
Cerco di dirgli che non è possibile, ma non voglio rivelare di più, perciò accetto il mio destino. Sono Francisco Falcón e devo ammettere che il nome ha qualcosa… a parte l'allitterazione, ha anche ritmo, come Vincent van Gogh, Fabio Picasso, Antoni Gaudi, perfino il più semplice Joan Miró… hanno tutti il ritmo della fama. A Hollywood l'hanno capito e per questo abbiamo Greta Garbo e non Greta Gustafson, Judy Garland e non Frances Gumm: Frances Gumm assolutamente no.
5 novembre 1946, Tangeri
È venuta come aveva detto e io sono completamente impazzito. Stasera non ho fumato, non voglio che lo scintillio di diamante di questo momento si perda nei fumi dell'hashish. È arrivata, accompagnata da Charles Brown, monumentale accanto a lei e di una deferenza totale. Sono colpito dalla straordinaria grazia ed eleganza della signora, dalla perfezione del suo vestito, dalla morbidezza dei guanti, probabilmente fatti con la pelle delicata del ventre di un capretto di cinque settimane. Ciò che mi piace di più in lei è la naturale espressione di disapprovazione. La sua ricchezza, che la incornicia come un'aura e la separa dai comuni mortali, l'ha resa esigente, ma quando cade, credo che si faccia molto male. I suoi tacchi risuonano costosamente sui miei pavimenti di piastrelle di ceramica. Dice: «Eugenia Errázuriz si innamorerebbe di questo pavimento». Chiunque essa sia.