Выбрать главу

Io sono ipnotizzato da lei, ma stupisco me stesso perché non sono ammutolito come al solito mentre l'accompagno nello studio. La mia tecnica ormai è più raffinata di quella di R. e questa volta il disegno di P. non è nemmeno esposto. La signora fa il giro della stanza mettendo con cura un piede davanti all'altro mentre Charles Brown le mormora qualcosa all'orecchio che immagino rivestito di madreperla. Lei ascolta e annuisce. È interessata alle forme moresche, passa rapidamente davanti ai cupi paesaggi russi, indugia davanti ai disegni di Tangeri. Gira sui tacchi. Si è tolta i guanti che tiene mollemente nella mano piccola e bianca. «Questi disegni sono eccellenti», dice. «Notevoli. Originali. Davvero diversi. Emozionanti. Ma Charles mi dice che lei ha qualcosa che supera perfino l'eccellenza di questi lavori che ha avuto la bontà di lasciarmi vedere.»

«So a che cosa si riferisce. Ho detto al signor Brown che non era in vendita, perciò ho ritenuto che non fosse corretto mostrarglielo.»

«Desidero solo vederlo», dice lei. «Non vorrei mai portarle via una cosa che per lei è tanto importante.»

«Allora è inteso. Mi segua», dico.

Ho sistemato il disegno in modo che sia perfettamente illuminato, in fondo a un lungo corridoio in penombra, contro una parete di mattoni a vista sormontata da un arco bianco quasi ricamato da decenni di mani di calce. Quella parte della casa è molto buia e, trovandoselo davanti all'improvviso, sapevo che sarebbe stata attratta dal disegno come una falena dalla fiamma. Non mi sbaglio. E — ne sono quasi certo — nel vederlo emette addirittura un piccolo gemito di piacere. Si avvicina al disegno e leggo nei suoi occhi che è perduta. Il mio lavoro è fatto. Indietreggio e la lascio sola. Non si muove per dieci minuti. Poi china la testa e si gira. Quando siamo sulla porta di casa vedo che le brillano gli occhi. «La ringrazio tanto», dice. «Spero che mi farà l'onore di essere mio ospite a cena una di queste sere.» Mi porge la mano. Mi inchino e gliela bacio.

6 novembre 1946, Tangeri

Il giorno comincia con un invito a cena da parte di B.H. Un'ora dopo arriva Charles Brown. Organizzo un tè alla menta e fumo una sigaretta. La conversazione è lunga e tortuosa e comprende domande relative al mio passato su cui mento spudoratamente, improvvisando, sicuro che sia meglio così, che in quel modo nessuno mi conoscerà mai davvero, compreso possibilmente io stesso, e conserverò quell'aura di mistero che diventerà il segno distintivo della mia opera. Mi perdo in questo pensiero: anche quando io me ne sarò andato e si faranno studi eruditi e laboriosi per arrivare in fondo a Francisco Falcón (ecco, ci siamo, la trasformazione è già avvenuta, l'ho scritto senza pensare, Francisco González è scomparso), quando gli strati della cipolla saranno stati sbucciati l'uno dopo l'altro per arrivare al cuore della verità, ci si accorgerà, come sempre avviene con una cipolla e come sanno tutti, che la verità non è nulla. Quando l'ultima buccia sarà stata tolta non si troverà niente. Nessun messaggio. Niente. Io non sono niente. Noi non siamo niente. Rendermi conto di questo mi dà una forza enorme, sperimento un immenso slancio di libertà immorale. Per me non esistono regole. Ritorno a C.B. con un soprassalto. Mi sta chiedendo se io sia disposto a portare il disegno con me per mostrarlo agli altri ospiti. È una cosa che mi indebolirebbe psicologicamente, perciò rifiuto di nuovo. Ci dirigiamo alla porta e lui dice: «Si rende conto che la signora Hutton sarebbe disposta a spendere una grossa somma per il suo lavoro?»

«Nessuno può avere dubbi sui mezzi di cui dispone la proprietaria del palazzo di Sidi Hosni», dico.

Riserva il dardo finale all'ultimo momento.

«Cinquecento dollari», dice e si allontana lungo la stretta via, svolta a sinistra e risale verso la casbah.

Faccio appello a tutto il mio controllo per non richiamarlo.

11 novembre 1946, Tangeri

Avrei dovuto scrivere la notte scorsa, quando la perfezione della serata era ancora fresca nella mia mente. Sono rientrato così ubriaco e in un tale stato di eccitazione che ho dovuto fumare parecchie pipe di hashish per riuscire ad addormentarmi. Un sonno irrequieto dal quale mi sono svegliato intontito, con ricordi a sprazzi anziché ancorati ai fatti.

Arrivo al cancello del palazzo di Sidi Hosni, mostro l'invito e un Tanjawi in livrea, con i pantaloni bianchi, mi fa entrare. Immediatamente mi trovo in un mondo di sogno dove vengo passato da un servitore all'altro attraverso una serie di sale e di cortili per i quali non sono state risparmiate spese dal precedente proprietario di cui mi sfugge il nome. Blake? O era Maxwell? O forse tutti e due.

Il palazzo è formato da parecchie case diverse tutte collegate a una struttura centrale verso la quale sono condotto. L'effetto è disorientante, magico e misterioso. È un microcosmo dell'animo marocchino. Il servitore mi lascia in una stanza dove alcuni ospiti si comportano come se fossero a un cocktail party e altri come se si trovassero in un museo. Hanno tutti ragione. Indosso un completo, ma sono molto scuro di pelle per via della vita all'aria aperta e questo mi distingue tra gli invitati, in predominanza dalla carnagione chiara. Una signora sta quasi per chiedermi un drink, ma si accorge all'ultimo momento che non porto i guanti, né il fez. Mi domanda allora di che legno sia fatto il pavimento. C.B. viene in mio soccorso e mi fa fare il giro della stanza presentandomi agli altri. A ogni presentazione si leva un brusio che sale fino ai lampadari (che saranno sostituiti da altri in vetro di Murano) come uno stormo di colombe. Mi rendo conto che la cena è stata organizzata per me, per presentarmi in società, per adularmi. Mi mettono in mano un bicchiere. Il tasso alcolico è feroce. Il colossale C.B. mi tiene una mano sulla spalla come se fossi la sua statua formato minore e, se mi si versasse dentro un altro po' di bronzo, sento che potrei dominare una piazza grande come la sua. ha padrona di casa non compare ancora. Sono male attrezzato per l'occasione, non per mancanza di qualcosa da dire, ma per mancanza di maniere adatte al bel mondo. Si parla di New York, di Londra, di Parigi, si parla di cavalli, di moda, di yacht, di proprietà, di soldi. Mi vengono dette cose sulla nostra ospite, che ha donato la sua casa di Londra allo stato americano, che l'arazzo alla parete è un Qom, che i mobili intarsiati sono di Fez, la testa di bronzo del Benin. Sanno tutto del mondo di B.H., ma nessuno di loro è mai penetrato sotto il carapace della sua grande ricchezza. Ma io sì. E per questo sono qui. C.B. III ha detto a tutti, anche se non proprio con queste parole, che io ho sfondato il guscio e l'ho fatto con il più semplice e nel contempo il più seducente disegno a carboncino, un disegno che con la sua forza rivela più dell'intero palazzo di Sidi Hosni ristrutturato all'infinito, realizzato con tanto impegno, così massicciamente sovraccarico. Mentre giro per la sala raccolgo inviti per altre occasioni mondane e una quantità di approcci sessuali da parte delle donne. La stessa depravazione che cola spessa e tenebrosa nei vicoli di Soco Chico è presente anche qui dietro le mura dorate della dimora principesca del vecchio santo musulmano, Sidi Hosni.

B.H. viene subito da me, la mano tesa. Gliela bacio. Siamo al centro dell'attenzione. Dice: «Ho qualcosa da farle vedere». Usciamo dalla stanza. Lei si dirige a una porta davanti alla quale sta di guardia un nubiano alto, nerissimo, in pantaloni bianchi ma nudo fino alla cintola. B.H. gira la chiave, il battente è aperto dal nubiano e noi entriamo nella sua galleria privata. Alle pareti un Fragonard, un Braque, perfino un El Greco. Un quadro di quel tremendo imbroglione di Salvador Dalí, un Manet, un Kandinsky. Sono stordito. Vedo anche disegni, uno di Picasso e altri che, mi viene detto, sono di Hassan el Glaoui, il figlio del pascià di Marrakech. Poi arriviamo al momento clou dell'intera serata. B.H. mi porta verso uno spazio vuoto sulla parete. «Qui», dice, «voglio mettere qualcosa che riassuma i miei sentimenti verso il Marocco. Deve essere sfuggente, concreto eppure intoccabile, deve rivelare se stesso eppure essere incomprensibile, accessibile eppure proibito. Deve allettare come la verità che, quando si crede di poterla toccare, fugge via.» Non erano tutte parole sue, qualcuna era di C.B. e mi sembra che altre siano state inserite da me. Finisce con le parole: «Voglio che il suo disegno faccia parte di questa collezione». È un attacco programmato. So che devo cedere, resistere ancora rischierebbe di irritare i miei assalitori. Faccio segno di sì. Acconsento. Lei mi afferra il braccio al bicipite. Fissiamo incantati lo spazio sulla parete. «Parlerà con Charles per i particolari. Voglio che lei sappia che mi ha reso felice.»