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Il resto della serata è trascorso in un azzurro cristallino quale potrebbe trasparire attraverso un torrente di vetro veneziano. Un effetto in gran parte dovuto alla furia dell'alcol nelle bevande. Quando me ne sono andato, B.H. si era già ritirata da tempo. C.B. mi ha preso da parte e mi ha detto che avevo reso molto generosa la signora Hutton. «Sa ricompensare il genio. Ho ricevuto istruzioni di non mercanteggiare, ma semplicemente di darle questo.» Era un assegno di mille dollari. Verrà domani mattina a prendere il disegno. Ora valgo un decimo di un orologio di Van Cleef Arpels.

23 dicembre 1946, Tangeri

Ancora nessuna notizia di Pilar. Sono disperato. Cerco di lavorare, cerco di tradurre in pittura ciò che ho visto quel lontano pomeriggio, ma non riesco. Fra semplice ed è divenuto complicato. Ho bisogno che P. ritorni e mi ricordi quello che ho visto quel giorno. Ho rinunciato alla mondanità, mi annoiano le sue buone maniere. Sono stato molto ricercato dopo il mio trionfo con B.H., ma ora la bestia affamata si e spostata altrove. Sono sollevato ma ancora travolto.

7 marzo 1947, Tangeri

Ho smesso di lavorare. Siedo davanti ai sette disegni rimasti di P. senza una sola idea in testa. Ho perfino provato a lavorare sotto l'effetto del majoun. Dopo una seduta di lavoro torno alla realtà per scoprire che ho dipinto sette tele nere. Le appendo in una stanza imbiancata a calce e sto lì in piedi tra di esse in uno stato di totale desolazione.

25 giugno 1947, Tangeri

Sono disgustato dalla mia stessa rapacità. L'incapacità di creare ha suscitato in me il bisogno di un cambiamento senza fine. Faccio il giro dei bordelli e do la caccia a nuovi ragazzi, stancandomi di loro immediatamente. Fumo hashish potente e trascorro giornate intere a sventolare come una bandiera nello snervante cherqi che bussa incessantemente alle porte. Ho le braccia deboli, il pene flaccido, passo la notte nel bar Mar La Chica circondato da ubriachi, reprobi, idioti e puttane. Ho smesso col majoun, sotto la sua influenza riesco solo a rivisitare gli antichi orrori: pareti insozzate di sangue, rampe fatte di cadaveri, fango e sangue, carne e ossa imbiancate si agitano dentro la mia testa.

1o luglio 1947, Tangeri

Sono finito, ubriaco, davanti alla porta di casa di R. che mi ha rispedito a lavorare sulle barche.

1o gennaio 1948, Tangeri

Un nuovo anno. «Deve» essere migliore del vecchio. Non riesco ancora ad affrontare la tela vuota. Sono le prime parole che scrivo da luglio. Fisicamente sto meglio, non sono più grasso, ma non ho potuto liberarmi da quel senso di desolazione. Ho cercato di ritrovare P., sono perfino andato a Granada solo per scoprire che la casa era stata venduta e che la famiglia si era trasferita a Madrid, ma nessuno sapeva dove.

Non ho niente da segnalare. Le chabolas spazzate dal vento ai bordi della città non contengono tutta l'infelicità racchiusa nel mio corpo privilegiato. Ho sparso i disegni di P. davanti a me nella speranza di riacquistare lo slancio, ma ho ottenuto l'effetto contrario.

Mi è stato concesso di innalzarmi, mi è stato donato l'immenso privilegio di mettere l'occhio nella fessura e di scorgere la vera natura delle cose e di portarla giù con me, per mostrarla ai comuni mortali. Ma P. ne faceva parte, era la mia musa e io l'ho perduta. Non dipingerò e non disegnerò più, sono destinato al truogolo su cui tutti chinano il capo ogni giorno: mangiare, lavorare, dormire.

25 marzo 1948, Tangeri

Sono così disperato da aggrapparmi anche alle ombre? Vado da tutti i medici della città per vedere se per caso P. stia lavorando per qualcuno di loro. Niente. R. vuole rimandarmi in mare, pur di non vedermi precipitare come un uccello abbattuto da un colpo di sole.

3 aprile 1948, Tangeri

Esco di casa e la vedo lì, in strada, che passeggia avanti e indietro. Sono costretto ad aggrapparmi allo stipite per non cadere, le gambe non mi reggono più. La chiamo, lei non dice nulla e mi precede in casa. Il suo odore mi riempie i polmoni e so di essere stato salvato. Il ragazzo ci prepara il tè alla menta. P. non si mette a sedere nemmeno quando il tè arriva, accarezza la testa del ragazzo, che scivola fuori dalla stanza come se fosse stato sfiorato da un angelo.

Non so da dove cominciare. È come se mi trovassi davanti alle mie tele e la mia mano ne toccasse un angolo, un lato, il centro e non lasciasse nessun segno. Così avevo fatto per ore e quando finalmente avevo deciso in che punto avrei affrontato la tela bianca, bianchissima, non ero riuscito a lasciare nessun segno, sul pennello nessun colore. Così mi sento ora. Mi costringo a parlare.

Io: Sono andato a Granada per cercarti… non avevo più avuto tue notizie.

Silenzio.

Io: Mi hanno detto che tua zia era morta, che tua madre era malata e che vi eravate trasferiti tutti a Madrid.

P.: Era vero.

Io: Non avevano il tuo indirizzo, non c'era modo di mettersi in contatto con te.

P.: Non era vero.

Silenzio.

Io: Come, non era vero?

P.: Sapevano esattamente dove vivevamo. Mio padre aveva lasciato l'indirizzo, ma aveva anche detto di non darlo a nessuno che corrispondesse alla tua descrizione, che fosse arrivato da Tangeri e avesse chiesto notizie di sua figlia.

Io: Non capisco.

P.: Non voleva che ti vedessi mai più.

Io: Era per via di… quei disegni? L'aveva saputo? Aveva saputo che eri stata davanti a me…?

P.: No. Quella era una cosa tra te e me.

Io: E allora che cosa è successo? Non riesco a capire come io possa averlo fatto arrabbiare, abbiamo parlato soltanto della mia schiena…

P.: Mio padre conosceva l'arabo.

Io: Certo, ha vissuto a Melilla. Dov'è tuo padre? Devo parlargli.

P.: Mio padre è morto.

Io: Mi dispiace.