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P.: È morto sei mesi dopo mia madre.

Io: Hai sofferto.

P.: Sono stati diciotto mesi di sofferenza. Mi hanno invecchiato e indurito.

Io: Hai l'aspetto di sempre, non si vede dal tuo viso.

P.: Stavo dicendo che mio padre parlava l'arabo e siccome conosceva alcuni dialetti del Rif gli era stato chiesto di lavorare una mattina alla settimana per i poveri delle chabolas, alla periferia della città. La donna americana, La Rica, la signora Hutton, aveva donato del denaro per le medicine e i viveri. Mio padre si è offerto volontario. Ha riscontrato i soliti problemi della gente malnutrita, ma si è imbattuto anche in una quantità sorprendente di mutilazioni. Orecchie, dita, pollici tagliati, nasi spaccati. Nessuno ha voluto dirgli come se le fossero procurate fino a quando non si è presentata da lui una donna che mio padre aveva già visto la settimana prima con il figlio, che aveva perduto un orecchio. Era piena di vergogna all'idea di farsi visitare da un uomo, ma i dolori erano così forti che aveva dovuto cedere. Mio padre le ha chiesto notizie del figlio e perché mai nessuno volesse dirgli niente su quelle mutilazioni. «Non parlano perché è la vostra gente a fare questo.» Mio padre è rimasto allibito. La donna gli ha detto che lì i giovani devono rubare per non morire di fame, gli ha parlato delle mutilazioni che subiscono per dar da mangiare alle famiglie e di come alcuni siano morti in seguito alle ferite. Mio padre era agghiacciato e le ha chiesto chi facesse questo. «Gli uomini che sorvegliano i magazzini.»

Rimango muto. Dentro sono congelato, il petto una caverna di ghiaccio nella quale soffia il vento più gelido. La mia musa è tornata per dirmi che non mi parlerà più.

P.: Un ragazzo con una ferita infetta ha dovuto essere rioperato. Non succedeva spesso, ma in questo caso mio padre era rimasto commosso dal suo coraggio, dal modo in cui sopportava il dolore senza lamentarsi. Il ragazzo è guarito e mio padre lo ha preso a lavorare da noi. Un giorno all'ora di pranzo è scomparso. Lo abbiamo cercato in tutta la casa. Era rannicchiato in fondo alla lavanderia, non riusciva a dire altro che: «Se ne è andato? Se ne è andato?» Il suo era terrore allo stato puro. Gli abbiamo chiesto di chi avesse paura, ma lui rispondeva soltanto: «El Marroquí». È successa la stessa cosa la mattina dopo. Mio padre ha controllato sull'agenda degli appuntamenti e ha visto che quel giorno i suoi unici pazienti erano il signor Cardoso, che aveva ottantadue anni, e… tu.

Il giorno seguente mio padre ha portato il ragazzo al Petit Soco. Eri seduto al tuo solito tavolino al Café Central e il ragazzo ha detto a mio padre che El Marroquí eri tu.

Non riesco a muovermi. Gli occhi verdi sono su di me. So che questo è il momento cruciale, lo so perché tutto precipita intorno a noi come se le nostre due vite si stessero comprimendo in quest'unico istante. Decido di ignorarlo. Mentirò. Proprio come ho mentito con tutti, con C.B., con la regina della casbah, con la contessa de Bibì e con il duca de Bibò. Mentirò. Sono Francisco Falcón. No. Lui è Francisco Falcón. Io non esisto più.

P.: Sei responsabile di quanto è successo a quella gente?

Gli occhi verdi chiedono, supplicano e io so di essere perduto. Mi guardo le mani, che contengono l'acqua della mia vita che ribolle e mi schernisce mentre mi cola tra le dita.

Io: Sì, sono stato io. Ne sono responsabile.

Non se ne va. Mi guarda e io mi rendo conto di aver preso la decisione giusta.

P.: I miei genitori si sono informati discretamente sulla società per cui lavoravi e hanno scoperto che eri un ex legionario e un contrabandista e che era la tua capacità di esercitare la violenza a incutere timore in tutti i vostri nemici e concorrenti. Hanno deciso di mandarmi via. È stata una coincidenza che mia zia si sia ammalata.

Io: Ma perché costringerti a partire? Non bastava proibirti di vedermi?

P.: Perché sapevano che ero innamorata di te.

Finalmente si siede e chiede una sigaretta. Quasi non riesce a prenderla. Gliela accendo e gliela metto tra le dita. Il suo sguardo è fisso sul pavimento. Le dico tutto. Le racconto tutto (o quasi tutto) dell'incidente che mi ha spinto a scappare di casa e a entrare nella Legione, le racconto ciò che ho fatto nella Guerra civile, in Russia, a Krasni Bor. Le spiego perché ho lasciato Siviglia, le parlo di Tangeri… tutto. Le rivelo la mia desolazione, le dico come lei mi sia entrata dentro, come sia la mia struttura portante. Mi ascolta. Il cielo si fa scuro, si leva il vento. Il ragazzo porta altro tè alla menta e una candela. La fiammella tremola nella corrente. Di una sola cosa non le parlo. Le rivelo ogni orrendo particolare, ma non le dico dei ragazzi, non sono cose per un orecchio di donna. Ciò che ho confessato è già di un'enormità così sconvolgente che aggiungervi anche la depravazione mi metterebbe al di là di ogni possibilità di redenzione. Finisco parlandole del lavoro, del fatto che non dipingo più, che non riesco più a progredire dopo quei disegni, le dico che ho bisogno di lei perché solo lei può riaprirmi gli occhi. Ricorda le ultime parole che mi ha rivolto il giorno in cui abbiamo fatto quei disegni? le chiedo. Scuote la testa. Gliele dico: «Ora sai».

Mentre scrivo queste righe lei è distesa sul letto, una forma vaga sotto la zanzariera alla luce della fiamma lunga di una candela. Dorme. Prendo il foglio da disegno e il carboncino.

3 giugno 1948, Tangeri

P. mi dice di essere incinta. Per quel giorno abbandono i miei strumenti e ce ne stiamo insieme a letto, la gola troppo stretta per parlare della pienezza del nostro futuro insieme e dei bambini che avremo.

18 giugno 1948, Tangeri

Una cerimonia civile, una breve funzione nella cattedrale e P. e io siamo sposati. R. organizza un ricevimento all'hotel El Minzah. Come si comincia a dire qui, in autentico stile Riviera: è presente tutta Tangeri. Siamo circondati da estranei e ce ne andiamo non appena lo consentono le buone maniere. Ci nascondiamo sotto la zanzariera con una sigaretta di hashish. Galleggiamo l'uno nelle braccia dell'altra e facciamo l'amore come marito e moglie per la prima volta.

P. è stanca e vuole dormire. Io appoggio la testa sul suo ventre e sento le cellule raddoppiarsi là dentro. Ho un eccesso di energia, mi alzo e mi metto al lavoro. Penso che quello sia un giorno fortunato, così prendo il pennello e traccio il mio primo segno sulla tela. È un inizio. Mi innervosisco e decido di fare una passeggiata attraverso la medina e la casbah fino alle fortificazioni dalle quali contemplare il mare notturno e il mio futuro. Nel Petit Soco mi fermano per congratularsi con me e offrirmi da bere. Insistono. Anche C. Non lo vedevo da mesi e permetto che mi offra un whisky. Parliamo e scherziamo per un po'. Me ne vado, ma C. mi raggiunge sulla via della casbah, mi prende per un braccio e mi chiede come mai io lo abbia trascurato, perché abbia mandato via i suoi ragazzi. Mi dice che sono di nuovo un blocco di ghiaccio, che il matrimonio va bene per gli avvocati e per i medici, che la vita borghese è nemica dell'arte. Gli ricordo chi sia P. Abbiamo camminato senza fretta e ora lui mi porta verso una casa, è un bar, mi dice, vuole offrirmi un ultimo bicchiere. Sediamo a un tavolino in un cortile e ci servono da bere. Intorno al cortile c'è un passaggio coperto, come in un chiostro, senza che io me ne accorga in quel passaggio si accendono candele e a un tratto vedo là alcuni ragazzi. C. sta cianciando di sovvertimento della sensualità, di anarchia della depravazione. Non lo ascolto, ma guardo il gioco dei muscoli sulle cosce dei ragazzi mentre camminano su e giù nella luce incerta. Sono turbato. C. mi offre una sigaretta. Contiene hashish che mi scende nelle vene come crema, le mie labbra accarezzano la sigaretta, la notte si ripiega intorno a me, altri ragazzi si muovono accanto a noi. C. se ne va con uno di loro. Altri mi prendono per le braccia, mi conducono via, mi spogliano, mi palpano, mi massaggiano, portandosi via ogni resistenza, io crollo sotto il tocco delle loro mani.