«Ci siamo già avvalsi di un vecchio gioielliere di qui. Ora è in pensione, ma ha ancora un laboratorio in plaza del Pan. Però non so se ce lo troverà di sabato pomeriggio.»
Il laboratorio era chiuso e nessuno nei negozi vicini aveva l'indirizzo di casa o il telefono dell'orefice. Falcón provò da qualche altro gioielliere, ma erano tutti impegnati o poco competenti in materia. Allora tornò alla galleria per sentire se Ramírez avesse fatto progressi con Greta. La porta era chiusa a chiave. Gli altri negozi della via stavano chiudendo per l'intervallo.
Estrasse il sacchetto di plastica con l'anello e qualcosa gli balenò nella mente, rapido, simile al lampo dell'esca nell'acqua agli occhi di un pesce. Lo perse nell'oscurità, ricordando le parole di suo padre: erano quelle le idee importanti, quelle che venivano dal profondo e scomparivano. Rimise il sacchetto in tasca. La donna che stava chiudendo il negozio accanto alla galleria gli disse che Greta probabilmente era andata da El Cairo a mangiare qualcosa.
Ramírez e Greta, seduti a un tavolino, mangiavano tapas: calamari e peperoni rossi ripieni di nasello. Bevevano birra. Le loro ginocchia si toccavano. Falcón mostrò l'anello a Ramírez, che lo prese e lo sollevò alla luce mentre Falcón gli raccontava il ritrovamento.
«Non è tornato per il valore», disse, «argento e uno zaffiro, non è un anello tanto prezioso.»
«Dev'essere importante per lui», affermò Falcón. «Per questo mi ha telefonato stamani, aveva bisogno di sapere se lo avessimo trovato.»
«Crede che sia preoccupato all'idea che possiamo scoprire l'importanza di questo anello?»
«Chiaramente ha un passato. Basta il fatto che sia un anello da donna allargato in modo da poter essere portato da un uomo, a lasciar intendere che ha una storia.»
«Ma quale storia? E come o perché noi dovremmo comprenderla?»
«Ricorda quando mi ha telefonato per dirmi che aveva una storia da raccontare e che io non avrei potuto impedirglielo? Questo anello fa parte di quella storia e credo che noi lo abbiamo trovato troppo presto. Se riuscissimo a indovinare il passato dell'anello, sapremmo troppe cose su di lui, non so perché, ma è così.»
«Ma noi non sappiamo niente dell'anello», ribatté Ramírez, perplesso davanti all'importanza che Falcón stava attribuendo a quel piccolo elemento di prova.
«Ma lo sapremo», affermò Falcón, indietreggiando verso la porta. «Noi lo scopriremo.»
Uscì incespicando dal locale, le due facce impresse nella mente. Greta sembrava interessata, Ramírez evidentemente lo giudicava uno squilibrato.
Tornato in calle Bailén, andò dritto nello studio. Sapeva che nelle altre stanze non vi era più niente degli effetti personali appartenuti a suo padre, Encarnación aveva provveduto a tutto nelle prime settimane dopo la morte. Aprì le imposte e si mise a passeggiare avanti e indietro intorno ai tavoli ingombri al centro della stanza. Stava elaborando il ricordo di sua madre che lo lavava dopo essersi tolta gli anelli. Dov'erano finiti i suoi gioielli? Ma certo, li aveva Manuela! La chiamò sul cellulare, ma la sorella disse di non averli mai visti. Quando Mamá era morta lei era troppo piccola; in seguito aveva domandato a suo padre dove fossero, ma lui le aveva confessato di averli persi durante il trasloco da Tangeri.
«Persi?» si stupì Falcón. «Non si perdono i gioielli della propria moglie.»
«Lo sai com'era tra me e papà», disse Manuela, «era convinto che a me interessassero solo i soldi, perciò quando gli chiedevo qualcosa, mi costringeva a strisciare per averla. Ma con i gioielli della mamma non ho voluto dargli soddisfazione. A parte il fatto che non erano niente di speciale, per quanto ricordo.»
«Ma cosa ricordi?»
«Le piacevano anelli e spille, ma non i braccialetti e le collane, diceva che erano catene per rendere schiave le mogli e non si era nemmeno mai fatta forare i lobi, perciò portava solo orecchini a clip. Non le piacevano le cose costose e preferiva l'argento, perché era di carnagione scura. Credo che l'unico suo anello d'oro fosse la fede nuziale», continuò, come se si fosse aspettata la domanda. «Fratellino, come mai vuoi sapere queste cose, di sabato pomeriggio per giunta?»
«Ho bisogno di ricordare una cosa.»
«Che cosa?»
«Se lo sapessi…»
«Sto scherzando, Javier. Tu hai bisogno di calma, stai prendendo il lavoro troppo… personalmente. Devi mettere un po' di distanza tra te e il lavoro, hijo. Paco mi ha detto che ti eri scordato del pranzo di domani.»
«Vieni anche tu?»
«Sì, e porto con me Alejandro e sua sorella.»
Cercando di ricordare i particolari della dieta seguita dalla sorella di Alejandro, Falcón riagganciò. Nella stanzetta dove aveva trovato i diari frugò in tutte le casse. Non trovò nulla. Una sola cosa non aveva mai visto prima: un rotolo di cinque tele. Le srotolò e un piccolo diagramma cadde per terra tra le casse. Portò le tele nello studio, le distese, ma non le riconobbe. Non erano opera di suo padre. Strati su strati di pittura acrilica che dava un effetto di luminosità, come di un chiaro di luna offuscato da nuvole. Le arrotolò di nuovo.
Era ormai buio e Falcón si lasciò cadere sul pavimento, rendendosi conto di aver dimenticato di mangiare e di andare al funerale di Salgado. Sedette con la schiena appoggiata alla parete, le mani ciondolanti tra le ginocchia. Il suo comportamento cominciava a essere ossessivo; la massa di oggetti accumulati nello studio di suo padre gli stava ingombrando il cervello, un gomitolo impossibile da dipanare, come una lenza aggrovigliata. Telefonò ad Alicia, ma trovò la segreteria. Non lasciò nessun messaggio.
Tirò fuori un libro da uno scaffale e si accorse che rimaneva molto spazio tra i volumi e la parete. La sua ossessione riprese il sopravvento e cercò in tutti gli scaffali finché, dietro i libri d'arte, non ebbe trovato una scatola di legno che ricordava di aver visto sulla toletta di sua madre. Rammentò perfino di aver frugato con le piccole dita tra i gioielli in quello scrigno del tesoro da libro di avventure.
La scatola aveva un disegno geometrico moresco sul coperchio e sui lati. Non riuscì ad aprirla e non c'era traccia di serratura, ma, dopo aver provato e riprovato per più di un'ora, mosse un piccolo pezzetto di legno a forma di piramide e la molla scattò.
Davanti ai gioielli che le erano appartenuti, la figura di sua madre balzò davanti a lui con tale vivezza che Javier accostò la faccia allo scrigno, quasi sperando che, dopo tutti quegli anni, vi fosse ancora conservata una traccia del suo odore. Non trovò niente. Il metallo era freddo sotto le dita. Sparse i gioielli sul tavolo, gli orecchini, grappoli d'argento annerito, una spilla a forma di scimitarra con un'ametista, un grosso cubo di agata montato su una fascetta d'argento. Proprio come aveva detto Manuela, l'oro mancava. La fede era stata probabilmente sepolta con lei.
Fissò i gioielli e attese che il ricordo sacro riaffiorasse, come era stato sul punto di fare davanti alla galleria di Salgado, ma affiorò soltanto la conchiglia piena di anelli in una visione sobbalzante di se stesso nell'acqua del bagno, mentre la mano insaponata della mamma gli accarezzava il minuscolo torace.
ESTRATTI DAI DIARI DI FRANCISCO FALCÓN
2 luglio 1948, Tangeri
Spremo i colori a olio sulla tavolozza. Li pugnalo col pennello. Li induco a mescolarsi. P. è distesa sul divano. È nuda, le braccia appoggiate al cuscino, le caviglie incrociate, il corpo pieno per la gravidanza. Le ho messo una collana, stringendogliela intorno al collo (questo non le piace), e lasciandola ricadere sulla schiena morbida. Premo il colore sulla tela. Scivola via dolcemente, muove il pennello, sono vicino, sono molto vicino. C'è forma.
17 novembre 1948, Tangeri