Raphael A. Lafferty
Maestro del passato
1. Alla venticinquesima ora
I tre capi s’incontrarono nel palazzo che apparteneva a uno di loro. Fuori splendeva il sole, ma dalla strada giungeva il rombo del tuono. Era il clangore degli Assassini meccanici, rabbiosi e affamati; la costruzione tremava sotto i loro colpi: erano sul punto di demolirla. Volevano il sangue e la vita di uno dei tre, e li volevano entro l’ora, entro il minuto, in quel preciso istante.
I tre uomini riuniti nell’edificio erano robusti fisicamente, erano importanti e potenti, erano intelligenti e interessanti. Un legame singolare li univa: ciascuno dei tre credeva di controllare gli altri due, di essere lui il burattinaio, e gli altri le marionette. E ciascuno dei tre aveva ragione, in parte. Insieme formavano una struttura ritorta su se stessa, tesa ed elastica: la più complicata di Astrobia.
Cosmos Kingmaker, troppo ricco. Il Leone Rampante.
Peter Proctor, troppo fortunato. La Volpe Sorniona.
Fabian Foreman, troppo furbo. Il Falco Inseguito.
— Questa è la terza occasione dell’umanità — disse Kingmaker. — Ehi! Stanno di nuovo buttando giù la porta! Come facciamo a parlare con tutto questo baccano?
Afferrò il citofono. — Colonnello! — gridò. — Le sue guardie umane sono sufficienti. Deve far cessare il trambusto, è un ordine. È assolutamente proibito che uccidano quest’uomo, soprattutto qui, ora. E insieme con noi; è uno di noi, da sempre.
— Il colonnello è morto — rispose una voce. — Sono il capitano John Chezem terzo, e gli succedo nel comando.
— Da questo momento lei è il colonnello Chezem — disse Kingmaker. — Si faccia dare tutti i rinforzi che le occorrono, ma li fermi!
— Foreman — mormorò gentilmente Peter Proctor. — Qualsiasi cosa tu stia pensando, adesso, cerca di pensarla meno forte. Non li ho mai visti così avidi della tua vita.
— Qui stiamo sprecando la terza occasione dell’umanità — disse Kingmaker, rivolto agli altri due. La sua voce era fin troppo tranquilla, visto l’assedio al quale erano sottoposti. Ma anche quando parlava in tutta tranquillità, Kingmaker non poteva fare a meno d’incutere rispetto. La sua testa avrebbe figurato meravigliosamente sulle monete d’oro o su un Gran Sigillo. Lo chiamavano il Leone Rampante, ma a parte le statue, su Astrobia non c’erano leoni. Era un vero leone statuario scolpito nel travertino dorato, il marmo pregiato del pianeta. La sua voce era tanto profonda che creava echi anche quando bisbigliava. Faceva parte dell’aura di potere che si era costituita.
— La prima occasione dell’umanità era il Vecchio Mondo, sulla Vecchia Terra — continuò Kingmaker. — Laggiù qualcosa non ha funzionato, e continua a non funzionare, ma non lo abbiamo ancora analizzato esaurientemente. La Terra è ancora vitale, e tuttavia ne parliamo come di una cosa appartenente al passato. La Terra non ce l’ha fatta col Vecchio Mondo e non ce la farà neanche ora. La Terra è appassita.
Una successione di tonfi e un fracasso infernale! I sussulti e le vibrazioni si fanno sempre più forti. Stanno smontando l’edificio mattone su mattone per agguantare la preda, e stanno facendo in fretta. Gli Assassini meccanici sono inesorabili, quando sanno di essere così vicini alla vittima, e la loro vittima designata è Fabian Foreman.
— La seconda occasione dell’umanità era l’America, il Nuovo Mondo della Vecchia Terra — continuò Kingmaker. — In un certo senso era il primo mondo nuovo: una specie d’infanzia del nostro. Li l’umanità ha fallito per la seconda volta, e la Vecchia Terra è finita li. Ora sopravvive nella nostra ombra, a partire dal giorno in cui siamo stati abbastanza grandi da proiettarne una.
Tonfi, crepitii; l’urlo di macchine impazzite!
— La terza occasione dell’umanità è Astrobia — proseguì Kingmaker in tono regale. — Guai a sbagliare ancora! Forse non avremo mai più un’altra possibilità. L’entità delle forze in gioco ci impedisce di sopravvivere a un’altra sconfitta. Se falliremo questa volta, avremo fallito per sempre. E stiamo già fallendo. La nostra fortuna si è esaurita.
Uno stridio lacerante, e una sezione della parete esterna comincia a staccarsi.
— La nostra fortuna non si esaurirà mai — ribalte Proctor. — Ne abbiamo oceani interi, tutta da sfruttare. Ce la stiamo cavando bene.
— Quei casi della Vecchia Terra non sono stati due fallimenti totali — affermò Foreman, con un tremito nella voce, anche se poi fu totale la morte che produssero. Inoltre non sono casi isolati: formano un ciclo che si è già ripetuto molte volte.
Le sue parole sono sottolineate da esplosioni. Gli Assassini meccanici vogliono la sua vita, subito! Da quel momento in poi la conversazione diventa difficile, sommersa da una successione di colpi sempre più rapidi e violenti.
— Oh, maledizione, le mie orecchie! — riprese Kingmaker. — Sono stati due fallimenti molto neri, ma rischiarati da uno sprazzo di luce. E ce ne sono stati molti altri, Fabian, ma per me il numero magico è il tre. L’orologio si è fermato molte volte alla venticinquesima ora: è miracoloso che l’uomo sia riuscito a sopravvivere.
— Piantiamola con le chiacchiere — mormorò Proctor, cercando di superare il frastuono con la voce. Gli Assassini stavano facendo irruzione nelle stanze superiori dell’edificio. — Qui dentro ci siamo solo noi tre, e nessuno di noi si lascia impressionare dall’eloquenza degli altri due. Siamo venuti qui per scegliere un candidato, non per arrestare il finimondo.
— Ti sbagli, Proctor — l’interruppe Kingmaker con un brontolio sordo. Kingmaker era uno che si lasciava sempre impressionare dalla propria eloquenza. — Siamo qui proprio per arrestare il finimondo. Tocca a noi, alla Cerchia interna dei Maestri, impedire che scoppi.
— Il finimondo sta già scoppiando da un mucchio di tempo — obiettò Proctor. Era accattivante e sornione anche quando dissentiva. Nella sua voce c’era sempre un tono meccanico di soddisfazione. Faceva pensare a una volpe che mangia solo miele.
— Certo! e come scoppia forte! — esclamò Kingmaker. — Se conosci la storia, Peter, ti sarai accorto che ogni volta lo scoppio è più catastrofico di prima. In un certo senso, questa volta noi stessi siamo delle persone molto mediocri, più dei nostri predecessori. Credi davvero che avremmo avuto il potere, in uno dei cicli precedenti?
— Continuo a affermare che le prove già sostenute dall’uomo non sono state dei fallimenti totali — insistette Foreman. — Anzi, forse non sono state affatto dei fallimenti. Morire e fallire non sono la stessa cosa.
I pavimenti crollano, sotto di loro. Urla minacciose si levano dai piani inferiori.
— C’è una lunga serie di trionfi disperati, assolutamente incredibili — continuò Foreman. — Finora, la più mirabile caratteristica dell’uomo è stata il suo coraggio indomabile. Mi ripugna vedere che proprio noi tre stiamo per perderlo. — Nella voce di Foreman c’erano un po’ le strida del falco, ma c’era anche il trillo di una risata antica. Era alto; i capelli gli stavano diventando grigi, il volto rugoso. Sembrava più vecchio degli altri due, anche se non lo era. — Abbiamo già perduto troppo! Perdiamo qualcosa ogni volta che moriamo. Tante cose che avremmo potuto fare… Tante altre che sono diventate livide e marce… Siamo giunti al punto di negare perfino le cose che abbiamo fatto. Un fallimento non totale, nel Vecchio Mondo, sulla Vecchia Terra, ci ha concesso una nuova vita, mille anni fa. Ci ha dato… l’America!
— Dove il fallimento è stato peggiore di prima — lo interruppe Proctor, affabile e amaro.
— No! — protestò Kingmaker. — No. Quel fallimento è stato migliore di prima. E una spirale ascendente… finché non si spezza.