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Ecco, una notte, alzatosi di scatto a sedere sul letto, non era un'illusione, sentiva sul selciato avvicinarsi quell'inconfondibile scalpiccio d'unghie fesse, misto al rintocco dei campani.

Corsero in strada, lui e tutta la famiglia. Ritornava la mandria, lenta e grave. E nel mezzo della mandria, a cavalcioni sulla groppa d'una mucca, con le mani strette al collare, col capo che ballonzolava a ogni passo, c'era, mezzo addormentato, Michelino.

Lo presero su di peso, l'abbracciarono e baciarono. Lui era mezzo stordito.

— Come stai? Era bello? Oh…sì…

— E a casa avevi voglia di tornare? — Sì…

– È bella la montagna?

Era in piedi, di fronte a loro, con le ciglia aggrottate, lo sguardo duro.

— Lavoravo come un mulo, — disse, e sputò davanti a sé. S'era fatta una faccia da uomo. — Ogni sera spostare i secchi ai mungitori da una bestia all'altra, da una bestia all'altra, e poi vuotarli nei bidoni, in fretta, sempre più in fretta, fino a tardi. E al mattino presto, rotolare i bidoni fino ai camion che li portano in città… E contare, contare sempre: le bestie, i bidoni, guai se si sbagliava…

— Ma sui prati ci stavi? Quando le bestie pascolavano?…

— Non s'aveva mai tempo. Sempre qualcosa da fare. Per il latte, le lettiere, il letame. E tutto per che cosa? Con la scusa che non avevo il contratto di lavoro, quanto m'hanno pagato? Una miseria. Ma se ora vi credete che ve ne dia a voi, vi sbagliate. Su, andiamo a dormire che sono stanco morto.

Scrollò le spalle, tirò su dal naso ed entrò in casa.

La mandria continuava a allontanarsi nella via, portandosi dietro i menzogneri e languidi odori di fieno e suoni di campani.

Autunno
11 II coniglio velenoso

Quando viene il giorno d'uscire d'ospedale, fin dal mattino uno lo sa e se è già in gamba gira per le corsie, ritrova il passo per quando sarà fuori, fischietta, fa il guarito coi malati, non per farsi invidiare ma per il piacere d'usare un tono incoraggiante. Vede fuori delle vetrate il sole, o la nebbia se c'è nebbia, ode i rumori della città: e tutto è diverso da prima, quando ogni mattino li sentiva entrare — luce e suono d'un mondo irraggiungibile — svegliandosi tra le sbarre di quel letto. Adesso là fuori c'è di nuovo il suo mondo: il guarito lo riconosce come naturale e consueto; e d'improvviso, riavverte l'odore d'ospedale.

Marcovaldo un mattino così fiutava intorno, guarito, aspettando che gli scrivessero certe cose sul libretto della mutua per andarsene. Il dottore prese le carte, gli disse: — Aspetta qui, — e lo lasciò solo nel suo laboratorio.

Marcovaldo guardava i bianchi mobili smaltati che aveva tanto odiato, le provette piene di sostanze torve, e cercava d'esaltarsi all'idea che stava per lasciare tutto quanto: ma non riusciva a provarne quella gioia che si sarebbe atteso. Forse era il pensiero di tornare alla ditta a scaricare casse, o quello dei guai che i suoi figlioli avevano certo combinato nel frattempo, e più di tutto la nebbia che c'era fuori e che dava l'idea di doversene uscire nel vuoto, di sfarsi in un umido niente. Così girava gli occhi intorno, con un indistinto bisogno d'affezionarsi a qualcosa di là dentro, ma ogni cosa che vedeva gli sapeva di strazio o di disagio.

Fu allora che vide un coniglio in una gabbia. Era un coniglio bianco, di pelo lungo e piumoso, con un triangolino rosa di naso, gli occhi rossi sbigottiti, le orecchie quasi implumi appiattite sulla schiena. Non che fosse grosso, ma in quella gabbia stretta il suo corpo ovale rannicchiato gonfiava la rete metallica e ne faceva spuntar fuori ciuffi di pelo mossi da un leggero tremito. Fuori della gabbia, sul tavolo, c'erano dei resti d'erba, e una carota. Marcovaldo pensò a come doveva essere infelice, chiuso là allo stretto, vedendo quella carota e non potendola mangiare. E gli aprì lo sportello della gabbia. Il coniglio non uscì: stava lì fermo, con solamente un lieve moto del muso come fingesse di masticare per darsi un contegno. Marcovaldo prese la carota, glierawicinò, poi lentamente la ritrasse, per invitarlo a uscire. Il coniglio lo seguì, addentò circospetto la carota e con diligenza prese a rosicchiarla d'in mano a Marcovaldo. L'uomo lo carezzò sulla schiena e intanto lo palpò per vedere se era grasso. Lo sentì un po'

ossuto, sotto il pelo. Da questo, e dal modo come tirava la carota, si capiva che dovevano tenerlo un po' a stecchetto.

«L'avessi io, — pensò Marcovaldo, — lo rimpinzerei finché non diventa una palla». E lo guardava con l'occhio amoroso dell'allevatore che riesce a far coesistere la bontà verso l'animale e la previsione dell'arrosto nello stesso moto dell'animo. Ecco che dopo giorni e giorni di squallida degenza in ospedale, al momento d'andarsene, scopriva una presenza amica, che sarebbe bastata a riempire le sue ore e i suoi pensieri. E doveva lasciarla, per tornare nella città nebbiosa, dove non s'incontrano conigli.

La carota era quasi finita, Marcovaldo prese la bestia in braccio e andava cercando intorno qualco — s'altro da dargli.

Gli avvicinò il muso a una piantina di geranio in vaso che era sulla scrivania del dottore, ma la bestia mostrò di non gradirla. Proprio in quel momento Marcovaldo sentì il passo del dottore che stava entrando: come spiegargli perché teneva il coniglio tra le braccia? Aveva indosso il suo giubbotto da lavoro, chiuso alla vita. In fretta ci ficcò dentro il coniglio, s'abbottonò, e perché il dottore non gli vedesse quel rigonfio sussultante sullo stomaco, lo fece passare dietro, sulla schiena. Il coniglio, spaventato, stette buono. Marcovaldo prese le sue carte, e riportò il coniglio sul petto perché doveva voltarsi e uscire. Così, col coniglio nascosto nel giubbotto, lasciò l'ospedale e andò al lavoro.

— Ah, sei guarito finalmente? — disse il caporeparto signor Viligelmo vedendolo arrivare. — E cosa ti è cresciuto, lì? — e gli indicò il petto sporgente.

— Ci ho un impiastro caldo contro i crampi, — disse Marcovaldo.

In quella il coniglio dette un guizzo, e Marcovaldo saltò su come un epilettico.

— Cosa ti piglia? — fece Viligelmo.

— Niente: singhiozzo, — rispose lui, e con la mano spinse il coniglio dietro la schiena.

— Sei ancora un po' malandato, vedo, — disse il capo.

Il coniglio cercava di arrampicarglisi sulla schiena e Marcovaldo scrollava le spalle per farlo scendere.

— Hai i brividi. Va' a casa ancora per un giorno. Domani vedi d'essere guarito.

A casa, Marcovaldo arrivò reggendo il coniglio per le orecchie come un cacciatore fortunato.

— Papa! Papa! — l'acclamarono i bambini corren–

dogli incontro. — Dove l'hai preso? Ce lo regali? È un regalo per noi? — e volevano subito afferrarlo.

— Sei tornato? — disse la moglie e dall'occhiata che gli rivolse, Marcovaldo capì che il tempo della sua degenza non era servito ad altro che a farle accumulare nuovi motivi di risentimento contro di lui. — Un animale vivo? E cosa vuoi farne? Sporca dappertutto.

Marcovaldo sgombrò il tavolo e vi piazzò il coniglio in mezzo, che s'appiattì come cercando di sparire. — Guai a chi lo tocca! — disse. — È il nostro coniglio, e ingrasserà tranquillo fino a Natale.

— Ma è un coniglio o una coniglia? — chiese Mi — chelino.

Alla possibilità che fosse una coniglia, Marcovaldo non ci aveva pensato. Subito gli venne in mente un nuovo piano: se era una femmina si poteva farle fare i coniglietti e mettere su un allevamento. E già nella sua fantasia gli umidi muri di casa sparivano e c'era una fattoria verde tra i campi.

Era proprio un maschio, invece. Ma a Marcovaldo quest'idea dell'allevamento ormai gli era entrata in testa. Era un maschio, ma un maschio bellissimo, a cui si poteva cercare una sposa e i mezzi per crearsi una famiglia.