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Questo era un fatto estraneo alla sua esperienza: una trappola che si rifiutava di scattare. Il coniglio si volse, cercò gli altri segni d'insidia intorno, per scegliere a quale d'essi gli conveniva arrendersi. Ma intorno le foglie d'insalata venivano ritirate, i lacci gettati via, la gente affacciata spariva, sbarrava finestre e lucernari, i terrazzi si spopolavano.

Era successo che una camionetta della polizia aveva attraversato la città, gridando da un altoparlante: — Attenzione attenzione! È stato smarrito un coniglio bianco dal pelo lungo, affetto da una grave malattia contagiosa! Chiunque lo rintracci sappia che la sua carne è velenosa, e anche il contatto può trasmettere germi nocivi! Chiunque lo veda lo segnali al più vicino posto di polizia, ospedale o caserma dei pompieri!

Il terrore si sparse sui tetti. Ognuno stava in guardia e appena avvistava il coniglio che con un floscio balzo passava da un tetto a quello vicino, dava l'allarme e tutti sparivano come all'avvicinarsi d'uno sciame di locuste. Il coniglio procedeva in bilico sulle cimase; questo senso di solitudine, proprio nel momento in cui aveva scoperto la necessità della vicinanza dell'uomo, gli pareva ancora più minaccioso, intollerabile.

Intanto il cavalier Ulrico, vecchio cacciatore, aveva caricato il suo fucile con cartucce da lepre, ed era andato ad appostarsi su un terrazzo, dietro un fumaiolo. Quando vide nella nebbia affiorare l'ombra bianca del coniglio, sparò; ma tant'era la sua emozione al pensiero dei malefici della bestia, che la rosa dei pallini grandine un po' discosto, sulle tegole. Il coniglio sentì la fucilata rimbalzare intorno, e un pallino trapassargli un orecchio. Comprese: era una dichiarazione di guerra; ormai ogni rapporto con gli uomini era rotto. E in dispregio a loro, a questa che in qualche modo sentiva come una sorda ingratitudine, decise di farla finita con la vita.

Un tetto coperto di lamiera scendeva obliquo, e terminava nel vuoto, nel nulla opaco della nebbia. Il coniglio ci si posò con tutte e quattro le zampe, cautamente dapprima, poi abbandonandosi. E così scivolando, divorato e circondato dal male, andava verso la morte. Sul ciglio, la grondaia lo trattenne un secondo, poi sbilanciò giù…

E finì tra le mani guantate d'un pompiere, issato in cima a una scala portatile. Impedito fin in quell'estremo gesto di dignità animale, il coniglio venne caricato sull'ambulanza che partì a gran carriera verso l'ospedale. A bordo c'erano anche Marcovaldo, sua moglie e i suoi figlioli, ricoverati in osservazione e per una serie di prove di vaccini.

Inverno
12 La fermata sbagliata

Per chi ha in uggia la casa inospitale, il rifugio preferito nelle serate fredde è sempre il cinema. La passione di Marcovaldo erano i film a colori, sullo schermo grande che permette d'abbracciare i più vasti orizzonti: praterie, montagne rocciose, foreste equatoriali, isole dove si vive coronati di fiori. Vedeva il film due volte, usciva solo quando il cinema chiudeva; e col pensiero continuava ad abitare quei paesaggi e a respirare quei colori. Ma il rincasare nella sera piovigginosa, l'aspettare alla fermata il tram numero 30, il constatare che la sua vita non avrebbe conosciuto altro scenario che tram, semafori, locali al seminterrato, fornelli a gas, roba stesa, magazzini e reparti d'imballaggio, gli facevano svanire lo splendore del film in una tristezza sbiadita e grigia.

Quella sera, il film che aveva visto si svolgeva nelle foreste dell'India: dal sottobosco paludoso s'alzavano nuvole di vapori, e i serpenti salivano per le liane e s'arrampicavano alle statue d'antichi templi inghiottiti dalla giungla.

All'uscita del cinema, aperse gli occhi sulla via, tornò a chiuderli, a riaprirli: non vedeva niente. Assolutamente niente. Neanche a un palmo dal naso. Nelle ore in cui era restato là dentro, la nebbia aveva invaso la città, una nebbia spessa, opaca, che involgeva le cose e i rumori, spiaccicava le distanze in uno spazio senza dimensioni, mescolava le luci dentro il buio trasformandole in bagliori senza forma né luogo.

Marcovaldo si diresse macchinalmente alla fermata del 30 e sbattè il naso contro il palo del cartello. In quel momento, s'accorse d'essere felice: la nebbia, cancellando il mondo intorno, gli permetteva di conservare nei suoi occhi le visioni dello schermo panoramico. Anche il freddo era attutito, quasi che la città si fosse rincalzata addosso una nuvola come una coperta. Marcovaldo, imbacuccato nel suo pastrano, si sentiva protetto da ogni sensazione esterna, librato nel vuoto, e poteva colorare questo vuoto con le immagini dell'India, del Gange, della giungla, di Calcutta.

Venne il tram, evanescente come un fantasma, scampanellando lentamente; le cose esistevano appena quel tanto che basta; per Marcovaldo quella sera lo stare in fondo al tram, voltando la schiena agli altri passeggeri, fissando fuori dai vetri la notte vuota, attraversata solo da indistinte presenze luminose e da qualche ombra più nera del buio, era la situazione perfetta per sognare a occhi aperti, per proiettare davanti a sé dovunque andasse un film ininterrotto su uno schermo sconfinato.

Così fantasticando aveva perso il conto delle fermate; a un tratto si domandò dov'era; vide il tram ormai quasi vuoto; scrutò fuori dai vetri, interpretò i chiarori che affioravano, stabilì che la sua fermata era la prossima, corse all'uscita appena in tempo, scese. Si guardò intorno cercando qualche punto di riferimento. Ma quel poco d'ombre e luci che i suoi occhi riuscivano a raccogliere, non si componevano in nessuna immagine conosciuta. S'era sbagliato di fermata e non sapeva dove si trovava.

A incontrare un passante, era niente farsi indicare la via; ma, fosse il luogo solitario, l'ora, il tempo impervio, non si vedeva ombra di persona umana. Finalmente la vide, un'ombra, e attese che s'avvicinasse. No: s'allontanava, forse stava attraversando, o camminava in mezzo alla via, poteva essere non un pedone ma un ciclista, su una bicicletta senza luci.

Marcovaldo gridò: — Per piacere! Per piacere, monsù! Sa dov'è via Pancrazio Pancrazietti?

La figura s'allontanava ancora, quasi non si vedeva più. Disse: — Di lààà… — ma non si sapeva da quale parte indicasse.

— Destra o sinistra? — gridò Marcovaldo ma non sapeva se si rivolgeva al vuoto.

Una risposta arrivò, o uno strascico di risposta: un «… istra!» che poteva anche essere «… estra!» Comunque, poiché l'uno non vedeva com'era voltato l'altro, destra o sinistra non volevano dir niente.

Marcovaldo ora camminava verso un chiarore che pareva venire dall'altro marciapiede, un po' più in là. Invece la distanza era molto più lunga: occorreva attraversare una specie di piazza, con in mezzo un isolotto erboso, e le frecce (unico segno intellegibile) della rotazione obbligatoria per le auto. L'ora era tarda ma certo era aperto ancora qualche caffè, qualche osteria; l'insegna luminosa che cominciava a decifrarsi diceva: Bar… E si spense; su quello che doveva essere un vetro illuminato calò una lama di buio, come una saracinesca. Il bar stava chiudendo, ed era ancora — gli sembrò di capire in quel momento — lontanissimo.

Tanto valeva puntare su un'altra luce: Marcovaldo camminando non sapeva se seguiva una linea retta, se il punto luminoso verso il quale si dirigeva fosse sempre lo stesso o si sdoppiasse o triplicasse o cambiasse di posto. Il pulviscolo d'un nero un po' lattiginoso dentro il quale si muoveva era così minuto che già lo sentiva infiltrarsi per il pastrano, tra filo e filo del tessuto, come in un setaccio, imbeverlo come una spugna.