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Nel ciclo di Marcovaldo la luna piena tondeggiava in tutto il suo splendore.

Era l'ultimo quarto, quando gli elcttricisti tornarono a rampare sul tetto di fronte. E quella notte, a caratteri di fuoco, caratteri alti e spessi il doppio di prima, si leggeva COGNAC TOMAWAK, e non c'era — no più luna né firmamento né ciclo né notte, soltanto COGNAC TOMAWAK, COGNAC TOMAWAK, COGNAC TOMAWAK che s'accendeva e si spegneva ogni due secondi.

Il più colpito di tutti fu Fiordaligi; l'abbaino della ragazza lunare era sparito dietro a un'enorme, impenetrabile vu doppia.

Autunno
15 La pioggia e le foglie

In ditta, tra le varie altre incombenze, a Marcovaldo toccava quella d'innaffiare ogni mattina la pianta in vaso dell'ingresso. Era una di quelle piante verdi che si tengono in casa, con un fusto diritto ed esile da cui si staccano, da una parte e dall'altra, su lunghi gambi foglie larghe e lucide: insomma, una di quelle piante così a forma di pianta, con foglie così a forma di foglia, che non sembrano vere. Ma era pur sempre una pianta, e come tale soffriva, perché a star lì, tra la tenda e il portaombrelli, le mancavano luce, aria e rugiada. Marcovaldo ogni mattina scopriva qualche brutto segno: a una foglia il gambo s'inclinava come se non ce la facesse più a reggere il peso, un'altra s'andava picchiettando di chiazze come la guancia d'un bambino col morbillo, la punta d'una terza ingialliva; finché, una o l'altra, taci, la si trovava in terra. Intanto (quel che più stringeva il cuore) il fusto della pianta s'allungava, s'allungava, non più ordinatamente fronzuto, ma nudo come un bastone, con un ciuffetto in cima che la faceva somigliare a un palmizio.

Marcovaldo sgomberava il pavimento dalle foglie cadute, spolverava quelle sane, versava a pie della pianta (lentamente, che non traboccasse sporcando le piastrelle) mezzo annaffiatoio d'acqua, subito bevuto dalla terra del vaso. E in questi semplici gesti metteva un'attenzione come in nessun altro suo lavoro, quasi una compassione per le disgrazie d'una persona di famiglia. E sospirava, non si sa se per la pianta o per sé: perché in quell'arbusto che ingialliva allampanato tra le pareti aziendali riconosceva un fratello di sventura.

La pianta (così, semplicemente, essa era chiamata, come se ogni nome più preciso fosse inutile in un ambiente in cui a essa sola toccava di rappresentare il regno vegetale) era entrata nella vita di Marcovaldo tanto da dominare i suoi pensieri in ogni ora del giorno e della notte. Lo sguardo con cui egli ora scrutava in ciclo l'addensarsi delle nuvole, non era più quello del cittadino che si domanda se deve o no prendere l'ombrello, ma quello dell'agricoltore che di giorno in giorno aspetta la fine della siccità. E appena, alzando il capo dal lavoro, scorgeva controluce, fuor della finestrella del magazzino, la cortina di pioggia che aveva cominciato a scendere fitta e silenziosa, lasciava lì tutto, correva alla pianta, prendeva in braccio il vaso e lo posava fuori, in cortile.

La pianta, a sentir l'acqua che le scorreva per le foglie, pareva espandersi per offrire più superficie possibile alle gocce, e dalla gioia colorarsi del suo verde più brillante: o almeno così sembrava a Marcovaldo che si fermava a contemplarla dimenticando di mettersi al riparo.

Restavano lì in cortile, uomo e pianta, l'uno di fronte all'altra, l'uomo quasi provando sensazioni da pianta sotto la pioggia, la pianta — disabituata all'aria aperta e ai fenomeni della natura — sbalordita quasi quanto un uomo che si trovi tutt'a un tratto bagnato dalla testa ai piedi e coi vestiti zuppi. Marcovaldo, a naso in su, assaporava l'odore della pioggia, un odore — per lui — già di boschi e di prati, e andava inseguendo con la mente dei ricordi indistinti.

Ma tra questi ricordi s'affacciava, più chiaro e vicino, quello dei dolori reumatici che lo affliggevano ogni anno; e allora, in fretta, ritornava al coperto.

Finito l'orario di lavoro, bisognava chiudere la ditta. Marcovaldo chiese al magazziniere-capo: — Posso lasciar fuori la pianta, lì in cortile?

Il capo, signor Viligelmo, era un tipo che rifuggiva dalle responsabilità troppo onerose. — Sei matto? E se la rubano?

Chi è che ne risponde?

Marcovaldo però, a vedere il profitto che la pianta traeva dalla pioggia, non si sentiva di rimetterla al chiuso: sarebbe stato sprecare quel dono del ciclo. — Potrei tenerla con me fino a domattina… — propose. — La carico sul portapacchi e me la porto a casa… Così le faccio prendere più pioggia che si può…

Il signor Viligelmo ci pensò un poco, poi concluse: — Vuoi dire che ne rispondi tu, — e assentì.

Marcovaldo attraversava la città sotto la pioggia dirotta, curvo sul manubrio della sua bicicletta a motore, incappucciato in una giacca — a — vento impermeabile. Dietro, sul portapacchi, aveva legato il vaso, e bici uomo pianta parevano una cosa sola, anzi l'uomo ingobbito e infagottato scompariva, e si vedeva solo una pianta in bicicletta. Ogni tanto, da sotto il cappuccio, Marcovaldo voltava indietro lo sguardo fino a veder sventolare dietro le sue spalle una foglia stillante: e ogni volta gli pareva che la pianta fosse diventata più alta e più fronzuta.

A casa — una mansarda col davanzale sui tetti — appena Marcovaldo arrivò col vaso tra le braccia, i bambini presero a fare girotondo.

— L'albero di Natale! L'albero di Natale!

— Ma no, cosa vi viene in mente? C'è tempo a Natale! — protestava Marcovaldo. — Attenti alle foglie che sono delicate!

— Già in questa casa ci stiamo come in una scatola di sardine, — brontolò Domitilla. — Se ci porti pure un albero, dovremo uscire noi…

— Ma se è una piantina! La metto sul davanzale…

L'ombra della pianta sul davanzale si poteva vedere dalla stanza. Marcovaldo a cena non guardava nel piatto ma oltre i vetri della finestra.

Da quando avevano lasciato il seminterrato per la mansarda, la vita di Marcovaldo e famiglia era migliorata di molto. Però anche l'abitare sotto i tetti aveva i suoi inconvenienti: il soffitto per esempio lasciava colare qualche goccia. Le gocce cadevano in quattro o cinque punti ben precisi, a intervalli regolari; e Marcovaldo vi metteva sotto bacinelle o casseruole. Le notti di pioggia quando tutti erano a letto, si sentiva il tic — toc — tuc dei vari gocciolii, che dava un brivido come per un presagio di reumatismi. Quella notte, invece, a Marcovaldo, ogni volta che nel suo sonno inquieto si svegliava e tendeva l'orecchio, il tic — toc — tuc pareva una musichetta allegra: gli diceva che la pioggia continuava, blanda e ininterrotta, e nutriva la pianta, spingeva la linfa su per gli esili peduncoli, tendeva le foglie come vele. «Domani, affacciandomi, la troverò cresciuta!» pensava.

Ma con tutto che l'avesse pensato, aprendo la finestra al mattino non poteva credere ai suoi occhi: la pianta ora ingombrava mezza finestra, le foglie erano per lo meno raddoppiate di numero, e non più reclinate sotto il loro peso ma tese e aguzze come spade. Scese le scale col vaso stretto al petto, lo legò al portapacchi e corse in ditta.

Era spiovuto, ma la giornata rimaneva incerta. Marcovaldo non era ancora sceso di sella, quando riprese a cascare qualche goccia. «Visto che le fa così bene, la lascio ancora in cortile» pensò lui.

In magazzino, ogni tanto andava a mettere il naso fuori della finestrella che dava sul cortile. Questo suo distrarsi dal lavoro, al magazziniere — capo non garbava. — Be', cosa ci hai oggi, da guardare fuori?

— Cresce! Venga a vedere anche lei, signor Viligelmo! — e Marcovaldo gli faceva cenno con la mano, e parlava quasi sottovoce, come se la pianta non dovesse accorgersene. — Guardi come cresce! Neh, che è cresciuta?