L’uomo bianco si permise di rilassarsi un po’ dietro quel suo atteggiamento disinvolto. Quanto c’era da imparare da quella gente! Erano certamente dei primitivi, ma in contatto con un potere ancora vivo che, nei paesi più civilizzati, costituiva ormai solamente una verità storica deformata.
«Ecco,» disse il bocor, slacciandosi la sacca e lanciandogliela. «Serviti della farina e del rum… e ci sono anche dei canditi dentro. I loa hanno un debole per i dolci.»
Hurwood portò la sacca fino a quel fosso poco profondo — mentre la sua ombra proiettata dalla torcia si allungava davanti a lui fino al fitto fogliame che cingeva la radura — e la lasciò cadere a terra con un tonfo. Si chinò per prendere la bottiglia di rum, la stappò coi denti, si raddrizzò e camminò lentamente attorno al fosso versando a terra il liquore aromatico. Quando ebbe completato il cerchio, ne era rimasto ancora un poco, e lui lo bevve prima di gettare via la bottiglia. C’erano sacchetti di farina e canditi nella sacca, ed egli sparse anche questi intorno al fosso, sgradevolmente consapevole del fatto che quei movimenti erano simili a quelli di un contadino che irriga e semina un campo.
Un cigolio metallico lo fece voltare verso la capanna, e il gruppo che avanzava verso di lui sulla radura — era il bocor che si sforzava di spingere una carriola in cui erano stati spinti due corpi svenuti dalla pelle scura — risvegliò orrore e speranza dentro di lui. Fuggevolmente desiderò che non dovesse essere sangue umano, che bastasse il sangue di una pecora, com’era stato per Ulisse… ma serrò la mandibola e aiutò il bocor a scaricare i corpi a terra, in modo che le loro teste fossero sufficientemente vicine al fosso.
Il bocor prese un piccolo coltello per pelare, e lo tese all’uomo con un braccio solo. «Vuoi farlo tu?»
Hurwood scosse la testa. «Sono,» disse con voce rauca, «tutti tuoi.» Distolse lo sguardo e fissò intensamente la fiamma della torcia mentre il nero si accovacciava sui corpi, e quando, pochi momenti dopo, udì lo spruzzo e lo zampillo sulla tela cerata, chiuse gli occhi.
«Le parole adesso,» disse il bocor. Cominciò a salmodiare in un dialetto che mescolava il francese, la lingua del distretto di Mondongo in Africa, e quella degli indiani caraibici, mentre l’uomo bianco, gli occhi ancora chiusi, cominciò a salmodiare in antico ebraico.
La salmodia, che procedeva in un casuale contrappunto, divenne gradualmente più forte, come se stesse tentando di soffocare i suoni che adesso giungevano dalla giungla: suoni simili a risatine e pianti sussurrati, un canto che frusciava nei rami alti, un raschiare chitinoso come pelli abbandonate da serpenti strofinate assieme.
Ad un tratto le due litanie divennero identiche, e i due uomini si trovarono a parlare perfettamente all’unisono, sillaba per sillaba — sebbene il bianco stesse ancora parlando in antico ebraico e il nero nel suo peculiare miscuglio di linguaggi. Stupefatto della cosa, benché vi partecipasse, Hurwood avvertì i primi tremiti di un reale timore di fronte a quella coincidenza impossibilmente prolungata. Al di sopra dei fumi acri del rum versato e del tanfo rugginoso del sangue c’era, all’improvviso, un nuovo odore, l’odore di metallo surriscaldato della magia, sebbene adesso fosse più forte di quanto lo avesse mai avvertito in precedenza…
E poi, tutt’a un tratto, non furono più soli… infatti la radura era adesso affollata di ombre dalla forma umana che erano quasi trasparenti alla luce della torcia, anche se la luce era offuscata da parecchie di loro che la schermavano, e tutte quelle cose prive di sostanza si stavano accalcando in direzione del sangue e imploravano con vocine acute e pigolanti simili a quelle degli uccelli. I due uomini interruppero la salmodia.
Anche altre cose erano apparse, sebbene non attraversassero le linee di cenere che il bocor aveva tracciato intorno al perimetro della radura, ma si limitavano a scrutare attraverso i tronchi dei palmizi, e ad accovacciarsi sui rami. Hurwood vide un vitello con le orbite fiammeggianti, una testa sospesa a mezz’aria con uno spettrale pendolo di intestini nudi che pendevano dal suo collo, e, fra gli alberi, diverse piccole creature che sembravano più insetti che esseri umani; e mentre gli spiriti che stavano all’interno delle linee del verver continuavano a emettere uno stridore incessante, gli osservatori all’esterno erano tutti silenziosi.
Il bocor stava tenendo gli spiriti lontani dal fosso agitando con ampi gesti il piccolo coltello. «Presto!» ansimò. «Trova quello che vuoi!»
Hurwood raggiunse l’orlo del fosso e scrutò le creature diafane.
Sotto il suo sguardo alcune divennero un po’ più visibili, come strati di bianco d’uovo nell’acqua bollente. «Benjamin!» gridò una di esse, con la sottile voce stridente che saliva al di sopra del ciarlìo di fondo. «Benjamin, sono io, Peter! Sono stato testimone alle tue nozze, ricordi? Digli di lasciarmi bere!»
Il bocor guardò l’altro uomo con espressione interrogativa.
Hurwood scosse la testa, e il coltello del bocor balenò e divise in due lo spìrito supplicante; con un debole grido la cosa si dissolse come fumo.
«Ben!» stridette un’altra. «Che tu sia benedetto, figliolo, hai portato del nutrimento per tuo padre! Lo sapevo che…»
«No,» disse Hurwood. La sua bocca era una linea dritta mentre il coltello balenava di nuovo e un altro lamento si perdeva volando via nella brezza.
«Non posso trattenerli per sempre,» ansimò il bocor.
«Ancora un poco,» sbottò Hurwood. «Margaret!»
Ci fu un’agitazione e un coagularsi da un lato, e poi una forma simile a una ragnatela si fece avanti, galleggiando. «Benjamin, come hai fatto a venire qui?»
«Margaret!» Il grido di lui fu più di dolore che di trionfo. «È lei,» abbaiò al bocor. «Lascia che si avvicini.»
Il bocor interruppe il movimento oscillante del braccio e cominciò a tirare colpi a tutte le ombre, tranne che a quella indicata da Hurwood. Lo spettro si avvicinò al fosso, poi si offuscò, rimpicciolì e ridivenne chiaramente visibile in posizione inginocchiata. Allungò un braccio verso il sangue, poi si bloccò e si limitò a sfiorare l’impasto di rum e farina sul bordo. Per un momento la donna fu opaca alla luce della torcia, e la sua mano divenne abbastanza solida da far rotolare uno dei canditi per alcuni pollici. «Non dovremmo essere qui, Benjamin,» disse, con la voce adesso leggermente più risonante.
«Il sangue, prendi il sangue…» gridò l’uomo con un solo braccio, cadendo in ginocchio all’altro lato del fosso.
Senza emettere alcun suono la forma spettrale si ridusse in fumo e volò via, sebbene la fredda lama non si fosse neppure avvicinata a lei.
«Margaret!» gridò l’uomo, e si tuffò fra gli spettri ammassati sul fosso; essi si divisero davanti a lui come ragnatele stese fra gli alberi, e la sua mascella si serrò con uno schiocco contro il suolo duro. Il ronzio nelle orecchie gli impedì quasi di udire il coro delle voci sgomente degli spiriti che scemava nel silenzio.
Dopo alcuni momenti Hurwood si alzò a sedere e lanciò occhiate furtive intorno a sé. La luce della torcia era più vivida, ora che non c’erano più forme spettrali a filtrarla.
Il bocor lo stava fissando. «Spero che ne sia valsa la pena.»
Hurwood non rispose; si limitò ad alzarsi lentamente e faticosamente in piedi, strofinandosi il mento graffiato e scostandosi i capelli bianchi e umidi dalla faccia. I mostri stavano ancora in piedi, accovacciati e sospesi appena al di là delle linee di cenere; evidentemente nessuno di essi si era mosso, o aveva soltanto sbattuto le palpebre, durante l’intera faccenda.