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Friend stava fuori di fronte alla casa la mattina dopo, camminando avanti e indietro mentre reggeva la torta più grande e sontuosa che era riuscito a comprare col denaro preso dal cassetto dei risparmi del padre. Era uno spettacolo che avrebbe suscitato brama in qualsiasi amante di dolciumi, e il ragazzo l’aveva ricoperta con estrema cura di glassa per celare ogni indizio dell’alterazione che lui stesso aveva apportato.

Dopo un’ora e mezza di faticoso andirivieni, col braccio paffuto che gli doleva crudelmente per la tortura di tenere sollevata la pesante torta, il piccolo Friend finalmente vide emergere il vecchio, ancora sbadigliante ma vestito, adesso, con un soprabito di velluto sgargiante foderato di taffettà. Friend, questa volta, tenne la torta un po’ più in alto mentre passava, ed esultò quando, simultaneamente, dei crampi provocati all’improvviso gli annodarono lo stomaco e la torta fluttuò via dalle sue mani.

I crampi lo fecero piegare in due e rotolare sul lastricato, ma lui si costrinse ad aprire gli occhi a dispetto del dolore e ad osservare la torta che levitava: stava salendo nell’aria, poi fece una leggera deviazione e ridiscese all’altro lato della casa. Il vecchio ridacchiante tornò dentro, e i crampi di Friend si calmarono. Il ragazzo si alzò faticosamente in piedi, raggiunse zoppicando la porta, e, silenziosamente, entrò.

Udì il vecchio che trangugiava la torta in un’altra stanza, e Friend attese nel polveroso ingresso finché il rumore del masticare non terminò e iniziò il piagnucolio. Allora entrò con coraggio nella stanza contigua, e vide il vecchio che si rotolava sul pavimento fra pezzi di mobilio indistinguibili e coperti da lenzuola. «Ho nascosto la medicina,» disse il ragazzo a voce alta. «Dimmi come fai le tue magie e te la darò.»

Dovette ripeterlo alcune volte, a voce ancora più alta, ma finalmente il vecchio comprese. Interrompendosi spesso, e facendo grande uso di gesti eloquenti quando le parole gli venivano a mancare, il vecchio spiegò al ragazzo le basi per quello scambio che era la magia, un concetto tanto semplice, ma tanto poco evidente, quanto l’utilità di un punto d’appoggio e di un paranco per incrementare in maniera appariscente la forza di sollevamento. Il ragazzo afferrò rapidamente la nozione, ma insistette affinchè il vecchio gli insegnasse subito a muovere le cose da lontano prima di andargli a prendere l’antidoto; e dopo che il giovane Friend ebbe con successo scagliato un divano contro il soffitto, con forza sufficiente a spaccare l’intonaco, il vecchio gli implorò di porre fine al suo dolore.

Friend, ridendo, si era dichiarato suo servitore, e poi era corso a casa, lasciando che il cadavere devastato fosse ritrovato dagli inquilini di quella casa quando avessero fatto ritorno.

Mentre cresceva, tuttavia, e studiava i documenti delle antiche magie — tutti così coerenti, in maniera allettante, di cultura in cultura! — giunse all’amara constatazione che le magie davvero splendide e divine erano, gradualmente attraverso i millenni, diventate impossibili. Era come se la magia fosse stata un tempo una sorgente alla quale uno stregone poteva riempire quel vaso che lui era fino all’orlo, ma che ormai fosse soltanto terra umida dalla quale solo poche gocce potevano essere ricavate, e anche con difficoltà… o come se vi fossero invisibili gradini nel cielo, ma il cielo li avesse ingranditi e separati, al punto tale che, sebbene gli antichi maghi fossero stati in grado di salire su di essi con un piccolo sforzo, adesso fosse necessaria la forza di una vita per saltare da uno di essi al successivo.

Ma lui lavorò con ciò che rimaneva, e quando ebbe quindici anni era in grado di prendere tutto ciò che voleva, e poteva costringere le persone a fare virtualmente qualsiasi cosa, contro la loro volontà… e allora tentò di dare a sua madre, che era stata l’unica a credere in lui, la possibilità di accedere a quel mondo segreto che aveva scoperto. Non riuscì mai più a ricordare con esattezza cos’era accaduto dopo… ma sapeva che il padre lo aveva colpito, e che lui era scappato dalla casa dei suoi genitori e non vi era mai più ritornato.

La sua abilità magica lo mise in grado di vivere confortevolmente per i successivi cinque anni da studente. Il miglior cibo, i migliori abiti e alloggi erano alla sua portata — anche se una profonda diffidenza nei confronti del sesso gli aveva impedito di fare qualsiasi cosa di più che avere dei perturbanti, e dimenticati, sogni che bagnavano le sue lenzuola. E così un giorno si allarmò, come potrebbe allarmarsi un uomo nel realizzare che la sua abituale dose giornaliera di laudano non gli è più sufficiente, nel realizzare che vuole… gli occorre… di più.

Perché, dopo tutto, non era quello che era in grado di fare che rendeva la magia meravigliosa, ma il prendere, la violazione della volontà di un’altra persona, il tenerla in pugno, la percezione della propria volontà che impregnava il panorama in ogni direzione; e così fu inquietante realizzare che la sua violazione degli altri era incompleta, che c’erano punti nel dipinto che resistevano alla sua volontà nella maniera in cui delle aree cosparse di cera della lastra di un litografo resistono all’inchiostro: non poteva raggiungere le loro menti. Poteva costringere la gente ad eseguire i suoi ordini, ma non poteva costringerla a volerlo. E finché ci fosse stato il più leggero fremito di protesta o di indignazione nelle menti delle persone che usava, allora il suo dominio su di loro — il suo assorbirle — non sarebbe stato assoluto.

Aveva necessità di renderlo assoluto… ma finché non incontrò Benjamin Hurwood aveva creduto che fosse impossibile.

CAPITOLO QUINTO

«Perché lo chiami così?» domandò irritata Beth Hurwood.

«Così, come? Hunsi kanzo?» disse Shandy. «È il suo titolo. Non so, mi sembra troppo familiare chiamarlo Thatch, e troppo teatrale chiamarlo Barbanera.»

«Il suo titolo? Cosa significa?»

«Significa che è un… iniziato. Che ha superato la prova del fuoco.»

«Iniziato a che cosa?» Parve turbata dal fatto che Shandy conoscesse tutte quelle cose.

Shandy fece per spiegare, poi si strinse nelle spalle. «Tutte queste cose magiche. Pur vivendo nel vecchio fortino, devi aver notato che la magia qui è usata quanto… il fuoco in Inghilterra.»

«Mi sono accorta che questa gente è superstiziosa, certo. Presumo che tutte le comunità poco istruite…» Si fermò di colpo, poi lo fissò. «Buon Dio, John… tu non credi a queste cose, no?»

Shandy si accigliò, e guardò la giungla al di là del fuoco baluginante. «Non voglio offenderti, per cui sarò franco. Questo è un mondo nuovo, e questi pirati vivono molto più intimamente con esso di quanto facciano gli Europei a Kingston e a Cartagena e a Port-au-Prince, i quali tentano di trapiantarvi quanto possono del Vecchio Mondo. Se credi nel Vecchio Testamento, allora credi in cose davvero bizzarre… e non dovresti essere così pronta a stabilire cos’è e cosa non è possibile.»

Mr. Bird gettò via il suo cibo e balzò in piedi, guardandosi intorno minaccioso senza fissare nessuno in particolare. «Io non sono un cane!» gridò rabbiosamente, con gli orecchini d’oro che scintillavano nel bagliore del fuoco. «Figlio di una cagna!»

Beth lo osservò allarmata, ma Shandy sorrise e le mormorò, «Niente di preoccupante… è una notte rara quella in cui non lo fa almeno una volta. Qualsiasi cosa lo incollerisca non ha niente a che fare con l’Isola di New Providence o il 1718.»

«Che Dio ti danni!» gridò Mr. Bird. «Io non sono un cane! Io non sono un cane! Io non sono un cane!»

«Credo che qualcuno una volta lo abbia chiamato cane,» disse piano Shandy, «e quando ha bevuto un po’ lo rammenta.»