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Poi, a dispetto della forte brezza, l’aria assunse l’odore sgradevole di una pentola di ferro vuota sul fuoco, e la nave fu di nuovo la tozza Charlotte Bailey dai molti ponti, e i marinai inglesi e spagnoli tornarono non solo nuovamente solidi ma vivi a vedersi — guance rubiconde, braccia abbronzate, occhi lampeggianti — e Friend brillò nel cielo, intenso, come un sole a forma di uomo…

Leo Friend sapeva di essere vicino alla comprensione; si trovava sulla soglia della divinità… e senza nessun aiuto esterno, senza attingere a nient’altro che alle sue risorse! Adesso era in grado di capire che così doveva essere. O ci sarebbe riuscito da solo oppure non si sarebbe verificato; e per sopraffare Benjamin Hurwood avrebbe dovuto farlo, e farlo in quel preciso momento.

Ma per essere Dio — che naturalmente significava essere stato Dio da sempre — doveva giustificare ogni evento del suo passato, definire ogni azione in termini tali da renderla coerente con la divinità… non avrebbero più dovuto esserci avvenimenti troppo sgradevoli da ricordare.

Con rapidità sovrumana si fermò per passare in rassegna mentale, anno dopo anno, il suo comportamento — le torture dei piccoli animali domestici, la malizia nei confronti delle compagne di giochi, i dolci avvelenati lasciati vicino ai cortili delle scuole e agli ospizi — e fu in grado di fronteggiare, e di incorporare nella divinità, ogni piccolo frammento di esso, e si sentì diventare incalcolabilmente più potente mentre si avvicinava sempre di più al perfetto autocompiacimento che porta all’onnipotenza…

E alla fine, con Hurwood virtualmente sconfìtto, ci fu un solo avvenimento squallido nella vita di Friend che necessitò di essere purificato… ma fu l’esperienza più lacerante e traumatica che lui avesse mai sopportato, e anche il semplice fronteggiarlo, anche il semplice rammentarlo, fu di una difficoltà suprema… Ma in quel momento, mentre era sospeso a mezz’aria al di sopra la nave, e stava faccia a faccia col suo nemico quasi annientato e osservava il trofeo quasi conquistato che si sollevava dalla cabina infranta sotto di lui, si costrinse a riviverlo.

Aveva quindici anni, e stava accanto allo scaffale dei libri nella sua puzzolente stanza da letto, ingombra di cianfrusaglie… no, nella sua elegante e palmellata camera da letto, che profumava della brezza di gelsomino che soffiava attraverso la finestra a due battenti e dell’odore delle splendide rilegature di pelle… era sempre stata così, non era mai stata una stanza squallida e mefitica… e sua madre aprì la porta ed entrò. Solo per un momento fu una vecchia megera dai capelli grigi in un frusto abito nero — poi fu una donna alta e bella in un vestito di seta lungo, decorato con una lunga scollatura sul davanti… Sette anni prima lui aveva scoperto la magia, e l’aveva perseguita con diligenza apprendendo molte cose, e ora voleva condividere la ricchezza della sua mente col l’unica persona che l’avesse mai apprezzata…

Le si avvicinò e la baciò…

Ma la cosa stava cominciando a sfuggirgli, lei era di nuovo quella donna vecchia, salita da lui soltanto per mettere lenzuola pulite sul suo letto, e la stanza era di nuovo quella stanza sporca e lui era uno spaventato ragazzo grassoccio interrotto nel bel mezzo delle sue attività solitàrie, e la stava baciando preso dalle vertigini poiché nel suo palpitante delirio aveva frainteso il motivo della sua visita… «Oh, mamma,» stava dicendo col fiato mozzo, «tu ed io possiamo avere il mondo, conosco la magia, posso fare cose…»

Con un enorme sforzo di volontà la costrinse ad essere ancora quella bella fanciulla con la lunga veste, costrinse la stanza ad espandersi nuovamente fino alle sue dimensioni regali… e lo fece appena in tempo, perché sapeva che suo padre, il marito di sua madre, sarebbe entrato ben presto nella stanza, e lui dubitava davvero di riuscire a rivivere quella scena, così come si era realmente svolta.

Bene, si disse incerto, sto ricreando qui la realtà. Entro pochi minuti quel ricordo intollerabile non sarà quello che è realmente stato.

Un rumore di passi che salivano rimbombò pesantemente sulle scale. Friend si concentrò, e il rumore diminuì di volume al punto che avrebbe potuto essere un bambino a salire quelle scale. C’era una lampada sul pianerottolo sottostante, e un’ombra enorme e setolosa oscurò la porta aperta e cominciò a intorbidire la camera… ma di nuovo Friend la ridimensionò, rendendola insignificante — ora un’ombra curva e minuscola crebbe nel vano della porta, indistinta, come se la cosa che la proiettava non fosse solida.

Un uomo piccolo come un ratto dritto sulle zampe posteriori, in calzoni cascanti, entrò nella stanza con passo strascicato, chiaramente non pericoloso per nessuno, a dispetto del suo squittire e accigliarsi. «Cosa…» cominciò con un brontolio assordante, ma Friend tornò a concentrarsi e la sua voce divenne stridente e petulante: «Cosa sta succedendo qui?» Il respiro della creatura puzzava di liquore e tabacco. La creatura-padre ora avanzò, grottesca, sul pavimento di mattonelle verso Leo Friend, e in questa versione della realtà il colpo che gli sferrò fu una pacca leggera e tremante.

La madre fronteggiò l’intruso, e il suo semplice sguardo bastò a far ritrarre la creatura dal ragazzo. «Tu, animale ignorante,» gli disse piano, con la sua voce bassa e musicale che echeggiava dalle pareti pannellate e si mescolava al casuale tintinnio delle fontane e delle campanelle decorative all’esterno. «Tu, sudicia cosa di sudore e attrezzi di fatica. La bellezza e lo splendore sono al di là della tua percezione bacata. Vattene.»

La cosa arretrò vacillante e confusa verso la porta, coi suoi odori disgustosi, anche se frammenti del suo informe pastrano nero e degli stivali di cuoio caddero in fiocchi, deturpando le mattonelle del pavimento.

Hurwood cadde per un altro piede; era quasi giunto al livello del ponte ormai. Il sudore gli incollava i capelli bianchi sulla fronte e lui stava respirando con aspri rantoli. I suoi occhi erano chiusi — ma per un momento uno si aprì, solo una fessura, e parve esserci in esso uno scintillio di astuzia, di trionfo quasi perfettamente celato.

Questo fece sobbalzare Friend, e per un momento vacillare il suo controllo; e nella camera da letto ritornatagli alla mente il padre cominciò ad ingigantire e ad arretrare con maggiore lentezza. La stanza stava decomponendosi e ritornando alla sua forma originaria, e la madre di Friend stava balbettando, «Perché hai colpito Leo, lo picchi sempre…» e il padre cominciò a girarsi per fronteggiarla.

In alto sul cassero di poppa Leo Friend strinse i pugni ardenti e usò tutta la sua forza di volontà; e, lentamente, il padre fu di nuovo respinto, e finalmente i pannelli ridivennero in parte visibili sui muri…

Allora Hurwood smise di fingersi sconfitto, e scoppiò a ridere, e colpì.

E il padre di Friend, sebbene la sua schiena fosse ancora rivolta verso di lui, crebbe finché la piattabanda della porta era quasi troppo bassa e stretta per lui, e quando si voltò aveva la faccia sogghignante di Hurwood, e aprì la bocca enorme e aggredì i timpani di Friend con la frase che Friend aveva disperatamente cercato di asportare dalla realtà: «Cos’hai fatto a tua madre, mostriciattolo? Guarda, l’hai fatta vomitare per terra!»

Gemendo in preda a un miserevole orrore, Leo Friend si voltò verso sua madre, ma dal momento in cui l’aveva guardata l’ultima volta aveva subito un’orrenda metamorfosi, e adesso era una cosa simile a un cane grasso e glabro che si stava ritraendo da lui a quattro zampe, con lo stomaco che si sollevava mentre vomitava gli organi interni sul pavimento sudicio…

La stanza non solo era tornata alla sua originaria sozzura, ma stava diventando ancora più buia, l’aria più stantia. Friend cercò di fuggire tornando alla limpida aria di mare e alla Charlotte Bailey, o anche allo Strepitoso Carmichael, ma non riuscì a trovare una via d’uscita.