Gwarha aveva lo sguardo intento che ha quando si appresta a guardare una di queste maledettissime sciocchezze. (?) Mi sono preparato a non ascoltare.
La musica è cessata. Gli uomini si sono messi l’uno di fronte all’altro e la rappresentazione è cominciata.
All’inizio, la cosa mi interessava, quando ancora avevo tutto da imparare sui hwarhath. I costumi sono sempre splendidi e i lavori in sé possono avere la bellezza frugale di una recita Noh. Non durano quasi mai più di un mezzo ikun. Non hanno quasi mai più di cinque personaggi. I dialoghi sono brevi e le scene pressoché inesistenti. Trattano sempre di uomini alle prese con spiacevoli problemi etici: un conflitto tra due tipi di onore, un conflitto tra due lealtà pari e opposte.
L’onore personale contro una stirpe.
Una stirpe contro il Popolo.
Scelte impossibili, che devono essere fatte in poco più di un’ora. E la maggior parte delle volte, si muore, alla fine, qualunque sia stata la scelta.
Mi hanno interessato un po’ più a lungo i drammi in cui sono coinvolte le donne. (I ruoli femminili sono ricoperti da uomini, naturalmente. Questa è una forma artistica interamente maschile.)
Che cosa fa un uomo quando scopre che sua madre è un pericolo per la stirpe? Si tratta di un problema pauroso. Non c’è modo per un qualsiasi uomo hwarhath sano di fare violenza a una donna o a un bambino. Ma la stirpe… come donne e bambini… dev’essere difesa.
Un dilemma serio.
Sono rimasto interessato, credo, perché era così difficile scoprire qualcosa sulle donne hwarhath… perlomeno per me, che vivo sul perimetro. (Gwarha non è tipo da prendere una casa umana per far visita alla sacra famiglia e alle zie.) (Penso che non farò commenti, qui.)
Alla stessa categoria dei drammi delle donne, o forse a una categoria leggermente diversa, appartengono i drammi sull’amore eterosessuale. Mi hanno sempre colpito perché strani. La mia reazione è scioccante per i hwarhath. Per loro, questi drammi hanno un fascino negativo. Ai bambini non viene mai concesso di vederli: e, a volte, quando la tendenza dell’Intreccio è conservatrice, sono stati interamente banditi. Sono sempre violenti e spesso al limite dell’abiezione. Finiscono sempre nella follia e nel sangue.
Frequentemente, alla fine, dopo che i corpi sono usciti di scena, il personaggio principale torna e recita un epilogo. (Le morali d’amore dei hwarhath.) Questo è ciò che avviene quando la violenza dal perimetro viene portata al centro. Tutto è distrutto. La famiglia non può sopravvivere.
C’è un ultimo tipo di poema epico che (credo) mi interessa ancora. I lavori sui rahaka: gli uomini che non muoiono, che continuano a vivere quando ogni persona normale sceglierebbe l’opzione.
Per esempio, un uomo la cui stirpe è stata distrutta: gli uomini uccisi tranne lui, le donne e i bambini integrati in un’altra stirpe. Ogni legame che ha col mondo è stato interrotto, ma lui lotta per sopravvivere. Verso quale fine? Perché? È un problema che affascina i hwarhath. Loro muoiono facilmente, in confronto agli umani, e non capiscono cosa induca certa gente a continuare senza alcuna buona ragione. Immaginano, perlopiù, che si tratti di un qualche difetto di carattere; ma, a volte, hanno il sospetto che sia un altro genere di eroismo.
C’è un famoso e vecchio pezzo su un guerriero che sta lentamente morendo per una qualche terribile malattia. Si siede sul palco. Fantasmi e persone lo vengono a trovare. Parlano. Gli viene offerta l’opzione. Non la coglie. Continua, invece, lentamente a morire. Più tardi, nel dramma (dura più del normale), si sdraia, troppo debole per stare ancora seduto. Alla fine della rappresentazione, respira a malapena.
Tutto sommato, preferisco la commedia.
Dal diario di Sanders Nicholas,
addetto alle informazioni presso lo staff
del Primo Difensore Ettin Gwarha
CODIFICATO PER LA SOLA VISIONE DI ETTIN GWARHA
9
Il giorno dopo, Anna si procurò un registratore. Sembrava un orologio da polso e, in realtà, segnava anche il tempo. Se lo mise in una tasca. Nicholas forse aveva notato che non portava mai alcun genere di cronometro.
Diversi giorni dopo, Nicholas chiamò e combinò un incontro alla barca per il tardo pomeriggio, un paio d’ore prima che lei iniziasse il turno. Il tempo era rimasto mite e calmo. Si sedettero in coperta. Questa volta, Nicholas portava un’uniforme grigia hwarhath, attillata. Sembrava perfetta. Apparentemente, il problema non consisteva nei sarti hwar quanto nel senso che i hwar avevano della moda umana. Nicholas aveva un paio di occhiali da sole umani: montatura di metallo dorato e lenti che luccicavano come il dorso di uno scarafaggio, verde iridescente.
Hattin portava occhiali da sole hwar rettangolari, con lenti nere e pesantissima montatura di plastica anch’essa nera. Sembravano belli sulla faccia piatta dell’alieno. Sarebbero stati malissimo su un umano.
— Non è soltanto una questione di stile — disse Nicholas. — Le orecchie dei hwarhath sono più spostate verso l’alto sulla testa e il naso è molto più largo e più piatto del naso di un umano. Io non riesco a portarli. Potrei farmene fare un paio, ma non sembra valerne la pena. Trascorro la maggior parte del tempo al chiuso.
Appoggiò i piedi sul parapetto e guardò la baia, che scintillava nella luce bassa e obliqua. — In teoria, sono qui per chiederle delle sue creature. Come penso di averle detto, il generale ha una curiosità a vasto raggio. Gli interessa l’intelligenza aliena… quella umana, soprattutto, ma qualunque cosa riesca a trovare. Credo di essere dell’umore adatto per qualcos’altro che le gigantesche e forse intelligenti meduse. Perché non mi parla della Terra?
Il soldato umano si mosse a disagio. Era una persona nuova, questa volta: un ragazzo robusto con lineamenti che non appartenevano ad alcun gruppo etnico che lei conoscesse. Del Mar Nero, forse? La stretta striscia di capelli era tagliata corta e tinta d’un color rosso mattone che si adattava molto bene alla sua pelle leggermente scura. Anna non avrebbe saputo dire di che colore fossero le sue iridi. Erano coperte da lenti a contatto nere e lucide.
— Niente d’importanza strategica — aggiunse Nicholas, dopo aver lanciato un’occhiata al soldato.
Anna aveva bisogno di tempo per stabilire che cosa potesse essere di importanza strategica. — Le manca?
— La Terra? A volte. — Lui fece una pausa. — Non credo nei rimpianti. Ci sono emozioni che ti intrappolano, che fanno finire la tua vita al punto in cui è arrivata e ti fanno rimpiangere che sia una sola. Preferisco stare in movimento, il che significa che cerco di pensare alla situazione in cui mi trovo proprio in questo momento e a cosa posso farne. — Guardò da sopra il bordo degli occhiali e sorrise. — Non credo poi nella sofferenza della solitudine. Mi mancano soprattutto le cose pratiche e normali. Lenti a contatto umane decenti. Il caffè. Ci sono giorni… ancora, dopo tutti questi anni… in cui penso che ucciderei per una tazza di caffè.
— A questo si può rimediare. — Anna si alzò, entrò nella cabina e chiese a Maria di preparare un bricco di caffè.
— Spero che tu sappia quello che fai, Anna — disse Maria.
— Forse. — Anna tornò fuori, si sedette e gli raccontò della sua ultima visita a New York, che non era cambiata molto dai tempi in cui l’aveva vista lui. Era ancora enorme, sporca, malandata e splendida. Come sempre, in fase di costruzione. Le mostruose torri di vetro del trascorso ventesimo secolo, folli divoratrici di energia, erano quasi tutte sparite. (Qualcuna era stata conservata come cimelio storico.) Lo stile architettonico più recente era Nostalgia dell’Età dell’Oro.