Il capitano Van versò il tè. — Dovevano essere solo dei preliminari… per scoprire se potevamo veramente incontrarci faccia a faccia, per stabilire una procedura per ulteriori negoziati e per prendere decisioni su particolari minori. L’arredamento, per esempio.
— È la terza volta che sento parlare di arredamento — disse Anna.
Il capitano sorrise. — Ai hwar piace sedere più vicino al pavimento di quanto facciamo noi, e non vogliono che li sovrastiamo; perciò, nella sala delle conferenze, dobbiamo negoziare l’altezza delle sedie. E desiderano che ci liberiamo del tavolo. Dicono che non si può fare una conversazione seria con un grosso pezzo di plastica in mezzo; per loro parlare faccia a faccia significa parlare in ginocchio.
Il maggiore, alla fine, distolse lo sguardo dal pianeta rotante. — Continui così, signora Perez. E grazie.
Anna se ne andò. Lo spettacolo di luci nella baia era veramente grandioso, quella sera. Scese giù per la collina, diretta alla stazione, pensando per tutto il tempo a Nicholas che passeggiava sull’isola, all’estremità buia di quel mare dai lampi azzurro-verdi e arancione.
10
Gran parte del mio diario è altrove: alla stazione Tailin o sulla nave. (La Maratoneta dello Spazio Hawata. Un bel nome, sebbene mi sia appena reso conto di non essere del tutto sicuro di che cosa sia una hawata. Ci sono cose sul Popolo che ancora non conosco e alcune di esse sono normali e ovvie.) (Sì.) Tutto ciò che ho qui sono le registrazioni che ho fatto da quando sono arrivato su questo pianeta. Non posso fare una ricerca e trovare il filo del discorso che ci ha condotti alla situazione attuale. Tutte quelle conversazioni hanno avuto luogo prima, sulla nave o a Tailin. Perciò, vado a memoria. Il generale direbbe che è una perdita di tempo. Abbiamo preso la nostra decisione. Non ci sono informazioni nuove, motivi di ripensamento. Meglio dedicarci completamente a qualcos’altro. Immagino, che diavolo. Non può farci alcun male.
(Non farò alcun commento.)
L’idea era semplice. Fare un piccolo… un piccolissimo… cambiamento nella situazione che esisteva in merito agli umani. Provare a piazzare qualche piccola informazione dall’altra parte.
Il generale non era sicuro di quanto lontano volesse spingersi in questa direzione. (Sì.) E a me non piacciono i piani complicati. Funzionano nell’olografo, ma nella vita reale ti si ritorcono contro e ti colpiscono tra gli occhi. Esistono troppe variabili nella realtà.
Va meglio una piccola azione. Falla. Vedi cosa accade. Poi fa’ qualcos’altro.
La nostra piccola azione era di portare me ai negoziati. Non è stato del tutto facile. Gli altri frontisti (alcuni di loro, perlomeno) volevano tenere segreta la mia esistenza. Ma il generale è riuscito a convincerli. Io sono in prima linea come esperto di umanità.
C’era… c’è… un elemento di rischio che turba me più di quanto non turbi il generale. Ma bisognava accettarlo. È un così bel modo di raccogliere informazioni!
Drammatico. Sapevamo che gli umani avrebbero prestato attenzione.
Veloce. Sarebbe bastato un momento… un’occhiata a me… per trasmettere tutto quello che volevamo dire.
E pubblico. Il generale non vuole trattare col nemico in privato.
Io non dovevo fare altro che scendere dall’aereo sotto quel diluvio.
Abbiamo detto al nemico che era possibile per degli umani vivere con e tra i hwarhath.
Abbiamo detto loro che era possibile per degli umani avviare trattative con i hwarhath.
Abbiamo detto loro che era possibile per degli umani lavorare con e per i hwarhath.
(Quest’ultima cosa è ambigua. Ma a me sembra che impiego, oppressione e schiavitù siano tutti rapporti tra esseri che, almeno fino a un certo punto, sono simili. Non ci si serve di un grosso squalo bianco o di un albero, o non li si schiavizza. Si ignora o si distrugge ciò che è veramente alieno.)
(Questo è un brutto discorso. Posso già dirlo. E, allora, gatti e cani? E le mucche? E le pecore? Muschi e licheni? Lieviti? Come non detto.)
(Prego spiegare tutto subito e faccia a faccia.)
Abbiamo attirato la loro attenzione sul generale, come su qualcuno con un interesse e una conoscenza insoliti dell’umanità, e su di me. Abbiamo detto al nemico che c’era qualcuno che non è alieno, qualcuno che loro possono… senza ombra di dubbio… capire, che vive tra i hwarhath.
Fortunatamente, i diplomatici hanno ricevuto il messaggio. La Mi è un’altra cosa. Sono loro il motivo della mia preoccupazione.
Ho guardato hawata. È un grande animale predatore che vola, simile a un uccello, e che vive sul pianeta hwarhath d’origine, su due dei tre continenti settentrionali. Prima si trovava su tutti e cinque i continenti, ma la civiltà ne ha ridotto la diffusione. Lo si trova adesso nei racconti popolari e in mitologia, sebbene solo nell’emisfero settentrionale. A quanto pare, si è estinto da troppo tempo al sud.
Secondo la leggenda, l’hawata ruba neonati e bambini. (Si tratta solo di una leggenda. Secondo gli scienziati, non esiste alcun caso autenticato.) Nella normale stesura del mito o della storia dell’hawata, un bambino viene rubato ma non mangiato. Lui, o lei, viene invece salvato dalla gente di un’altra stirpe e cresciuto come uno di loro.
Col tempo, naturalmente, viene scoperta la vera linea di discendenza del bambino, attraverso un qualche oggetto (un gioiello che il bambino portava quando l’hawata lo ha preso) o attraverso una peculiarità fisica. Il bambino ha strani occhi o una striscia scura lungo la schiena.
Se la storia è una commedia, la scoperta porta a una riconciliazione: i discendenti del nemico mettono fine alla guerra quando scoprono di avere in comune un figlio o una figlia. Spesso, comunque, la storia è tragica. Gli amanti scoprono di essere fratelli e che il loro amore è proibito. Un uomo scopre, all’inizio della battaglia, che i nemici sono suoi parenti stretti. E deve scegliere.
Per un qualche motivo, l’hawata non compare mai in nessun lavoro sugli animali e per quello che posso scoprire non c’è mai stato un poema epico che si ispiri a un rapimento da parte dell’hawata. Sembra una scelta naturale. Riesco perfino a immaginare l’atroce scena finale.
Sarà meglio che mandi un messaggio a Eh Matsehar.
Dal diario di Sanders Nicholas,
addetto alle informazioni presso lo staff
del Primo Difensore Ettin Gwarha
CODIFICATO PER LA SOLA VISIONE DI ETTIN GWARHA
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Per più di una settimana, Anna non ebbe notizie di Nicholas. Meglio. Il rito dell’accoppiamento nella baia stava raggiungendo l’apogeo. Era quella la parola giusta? Avrebbe controllato su un vocabolario quando ne avesse avuto il tempo.
Di giorno, l’acqua era pervasa di messaggi chimici, alcuni dei quali venivano captati da sensori piazzati sotto piccoli galleggianti o boe. Li aveva sistemati Yoshi, una mattina, quando la migrazione era appena iniziata. Punteggiavano la baia. Per il momento non c’era modo di raggiungerli senza disturbare gli animali in corteggiamento; ma trasmettevano analisi via radio a brevi intervalli di tempo.
Gli animali si servivano anche di segnali visivi. Ciò non serviva tanto a comunicare, pensava Anna, quanto a eccitare. Nelle giornate limpide, i segnali erano a malapena visibili. Ma il più delle volte le giornate erano coperte. L’acqua grigia scintillava e luccicava sotto un cielo pieno di nubi grigio scuro.
Di notte, naturalmente, lo spettacolo era incredibile: rosa, rosso, verde, blu, giallo, arancione chiaro e bianco. I colori riempivano la baia e si spostavano verso l’oceano aperto. In un paio di occasioni, con le nubi particolarmente basse, le luci avevano scintillato sopra la sua testa, nel cielo della notte: riflessi, tenui e pallidi, e difficili a vedersi, ma c’erano. Anna dormiva pochissimo.