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Alla fine, la stirpe scompare. Può volerci una generazione o due o perfino tre. Non esiste alcun perdono. I hwarhath credono nella consequenzialità e nella genetica. Ci sono certi tratti che non vogliono ereditare.

Wally ha detto: — Abbiamo due alternative. Possiamo dichiarare che gli umani sono persone che hanno infranto le regole della guerra. Oppure possiamo dichiararli non persone.

— Che cosa significa?

I pallidi occhi gialli mi hanno fissato. Ha un grado superiore al mio. Ho abbassato lo sguardo. — Possiamo dire che gli umani sono animali molto intelligenti, che sanno imitare il comportamento delle persone, ma che mancano della qualità essenziale dell’essere persona. Non sanno distinguere il giusto dall’ingiusto. Non sanno giudicare e discriminare. Credo che ci sia una buona argomentazione per questo e, se sono animali, allora possiamo trattarli come animali. Non abbiamo bisogno di preoccuparci delle regole della guerra.

— Wally, tu mi spaventi.

Lui ha sbadigliato di nuovo, mostrando i denti. Poi ha sorriso. — Noi non siamo amici, Nicky. Non dimentico mai che cosa sei. Un alieno. Un nemico. Un traditore della stirpe. Credo che, alla fine, tradirai Ettin Gwarha.

— Io credo di no.

— Forse non intenzionalmente; ma hai uno spirito che va in due direzioni, e come tutti gli umani ti lasci facilmente confondere. Mescoli tutto assieme. Non sai distinguere il giusto dall’ingiusto.

Un paio di allegre conversazioni mattutine. Sono andato a praticare hanatsin e poi a controllare le scorte che il generale ha portato via agli umani.

Dal diario di Sanders Nicholas,

addetto alle informazioni presso lo staff

del Primo Difensore Ettin Gwarha

CODIFICATO PER LA SOLA VISIONE DI ETTIN GWARHA

PARTE SECONDA

LE REGOLE DELLA GUERRA

1

Il viaggio andò secondo le previsioni. Fecero il primo trasferimento, seguendo le direzioni date dal nemico, e arrivarono al centro del nulla. Una nave hwarhath era lì ad attenderli e diede loro nuove direzioni. Ripartirono. La nave hwarhath rimase sul posto per accertarsi che nessuno li seguisse. Questo accadde altre due volte e poi, dopo quattro trasferimenti, giunsero alla stazione nemica.

Il fatto che orbitasse (a una buona distanza di sicurezza) non produceva alcuna luce utile, e la stazione era visibile solo come un grafico sul computer. Apparve su uno schermo della sala d’osservazione: un tozzo, squadrato cilindro che aveva più che mai l’aspetto di un barattolo di zuppa.

Come convenuto, la nave si fermò a una buona distanza di sicurezza dal barattolo di zuppa e attese l’arrivo di uno shuttle alieno. Anna fece i bagagli. Non era stato facile decidere cosa portarsi dietro dalla Terra e adesso doveva prendere altre decisioni. Che cosa ci si doveva mettere ai primi negoziati in assoluto con un alieno nemico in casa sua?

Vestiario confortevole e molto versatile. Vestiario facile da lavare e che non richiedeva d’essere stirato.

Ma anche… e non ultimo… che abbagliasse i cupi occhi azzurri degli alieni, e, se non gli alieni (chissà poi che cosa avrebbe potuto abbagliarli), almeno i suoi colleghi della squadra diplomatica, o Nicholas Sanders, con quel suo piacevole sorriso e la non altrettanto piacevole storia. Anche se non poteva dirsi assolutamente sicura che sarebbe stato coinvolto in quel nuovo giro di negoziati.

Quando ebbe finito di fare i bagagli, si recò nella sala osservazione e rimase a guardare la scatola di zuppa che girava, ruotando sul suo lungo asse.

C’era uno dei suoi colleghi, un giovane diplomatico che si chiamava Etienne Corbeau.

— Non capisco — disse lui. — Si può dare qualsiasi forma a queste stazioni. Perché le fanno così oscene?

— Forse loro le vedono in maniera diversa. La bellezza è un fatto soggettivo.

Etienne scosse la testa. — Io credo nell’assoluto dell’estetica. La moralità è relativa, ma nell’arte c’è la verità.

— Stronzate.

— Devi sforzarti di imparare un nuovo vocabolario, cara Anna.

Perché? Lei partecipava a quella gita per una ragione soltanto. Il nemico aveva chiesto espressamente di lei. I hwarhath sapevano che non era una diplomatica. Non si aspettavano che parlasse come Etienne.

Il nemico fece partire il suo shuttle e la squadra dei diplomatici salì a bordo: umani dai grandi sorrisi che prendevano posto negli ampi sedili alieni. Lei era l’unica donna; i hwarhath erano stati categorici.

L’aria all’interno dello shuttle aveva uno strano aroma. I hwarhath, pensò Anna dopo qualche momento. Si era dimenticata del loro odore in quei due anni ma adesso le tornava chiaramente. Non era spiacevole, solo non umano.

L’equipaggio dello shuttle indossava pantaloncini corti e sandali. Erano educati; Anna ricordava quella loro qualità dal precedente incontro con i hwarhath sul pianeta degli pseudosifonofori; e si muovevano con quella loro grazia che era una caratteristica della specie. E sembravano più alieni di quanto non fossero mai sembrati. Forse era a causa della loro nuova tenuta che non nascondeva nulla di quanto fossero pelosi. O forse era a causa dei capezzoli. Ne avevano quattro, disposti a due a due, grandi e scuri e chiaramente visibili sul loro largo petto peloso.

Anna si domandò quanti bambini nascessero in una nascita media hwarhath. Aveva fatto ogni ricerca possibile ma si sapeva così poco di quegli alieni! E soprattutto delle loro donne.

— Questa gente mi ha sempre fatto venire i brividi — disse Etienne.

— Perché?

— Gli occhi. Le mani. Il pelo. E la loro violenza. Tu non eri nella zona diplomatica quando l’hanno colpita.

No. Anna in quel momento era prigioniera della Mi umana.

Avvertì un sussulto: lo shuttle che si separava dalla nave umana, la Envoy of Peace. Un momento dopo, la loro gravità cambiò e Anna si assicurò che le cinture fossero allacciate.

Il viaggio non fu niente di speciale. I motori ora andavano, ora si fermavano, ora riprendevano ad andare. La gravità continuava a cambiare. Non c’era nulla di speciale da guardare, tranne la cabina senza finestrini. Ma i hwarhath usavano soltanto colori industriali? E perché i loro colori industriali erano gli stessi colori industriali usati sulla Terra? Certo, lei non sapeva nulla sull’ottica degli alieni. Forse quelle vuote pareti erano invece coperte di disegni allegri che lei non vedeva. Forse, quando guardavano le varie sfumature di grigio, gli alieni vedevano… chi avrebbe potuto dirlo? …colori vividi come il fucsia.

Attorno a lei, i diplomatici parlavano nervosamente. Non dicevano nulla di importante. Gli alieni avrebbero potuto essere in ascolto. Di fronte, l’assistente dell’ambasciatore parlava di gladioli ed Etienne stava descrivendo la sua ultima visita al Museo d’Arte Moderna di New York.

Dopo un’ora ci fu un altro piccolo sussulto. Lo shuttle aveva attraccato. Si aprirono delle porte e quelli dello staff fluttuarono fuori aiutati dagli alieni, che non fluttuavano. Doveva esserci qualcosa nei loro sandali che li teneva fermi al pavimento.

Era come arrivare a una stazione umana, pensò Anna. Un ascensore condusse i diplomatici dall’asse alla periferia. Quando si fermò, nessuno fluttuava più. Uscirono con grande dignità e i hwarhath li guidarono per un corridoio e in una stanza: vasta e assai luminosa, con una moquette grigiastra. L’aria era fresca e odorava di macchinario e di alieni; una mezza dozzina di loro stavano aspettando, con indosso soltanto quei loro pantaloncini lunghi fino al ginocchio.