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— Non capisco proprio questo loro vestiario — disse Etienne.

Anna preferiva quelle uniformi aderenti che aveva già visto addosso ai hwarhath. Adesso però quelli sembravano più a loro agio, sebbene avessero meno l’aria di consumati guerrieri spaziali.

Ci furono i saluti ufficiali, pronunciati da un grosso alieno con un pesante accento. Non il primo difensore. Dov’era? L’ambasciatore umano restituì i saluti. Anna, che era un po’ indietro, ebbe qualche difficoltà a sentire, non che fosse particolarmente interessata.

Osservò i hwarhath e notò che uno di loro le sembrava familiare: basso, scuro, ordinato. Lui la guardò, incontrando i suoi occhi per un brevissimo istante. E sorrise, e anche il sorriso le era familiare: breve, ammiccante, della durata dello sguardo. Hai Atala Vaihar.

Quando i convenevoli ebbero termine, lui le si avvicinò. — Signora Perez.

— Osservatore Hai Atala.

— Si ricorda di me. Ne sono compiaciuto. Devo però precisarle che sono stato promosso. Adesso sono un addetto.

— Congratulazioni.

Lui fece un altro dei suoi sorrisi. — Come saprà, è stato convenuto che abbia un alloggio adeguato lontano da quelli degli uomini. L’accompagno.

Anna parlò con i suoi colleghi. Etienne parve preoccupato. L’assistente dell’ambasciatore disse: — La cosa non è che mi piaccia molto, Anna. — Il capo delle sicurezza le disse di stare attenta. Hai Atala aspettava in rispettoso silenzio.

Un paio di minuti dopo, stavano percorrendo un corridoio simile a quelli della base hwarhath: largo, spoglio, grigio e pieno di alieni che si muovevano velocemente e con la loro consueta aria di sicurezza.

— Ho letto Moby Dick come mi ha consigliato — disse l’addetto. — Davvero un buon libro e quasi interamente decente. Ho… come si dice? …insistito con Sanders Nicholas perché lo leggesse. Voglio discuterne con un umano. Forse, fintantoché lei è qui…

Svoltarono in un altro corridoio. Anna guardò davanti a sé. Una figura alta e sottile era ferma e rivolta verso di loro, le braccia incrociate, una spalla contro la parete grigia del corridoio. Incrociava anche i piedi e tutto il suo peso poggiava su una gamba soltanto. Assolutamente tipico. Il ricordo che Anna aveva di Nicholas era di lui sempre in una posizione rilassata, tranne alla fine.

Lui si raddrizzò e si scostò dalla parete, dispiegando le braccia e allontanandole dal corpo. Doveva trattarsi di un gesto formale: braccia distese, mani piatte, i palmi in avanti. Le dita erano strette, i pollici verso l’alto. Che cosa significava? "Non ho niente in mano e su per le maniche?"

Hai Atala si fermò e fece lo stesso gesto.

— Salve, Anna — disse Nicholas, e sorrise. Sembrava lo stesso di due anni prima. Un po’ più vecchio, forse. E più grigio di capelli.

Hai Atala disse: — Nicky mi sostituirà, signora. Non ho parenti nella parte delle donne della stazione. In realtà, non dovrei neppure entrarci. Nicky almeno è della sua stessa specie e dice anche di essere della stessa regione del suo pianeta natio.

— Davvero? — chiese Anna.

— Ho letto la sua scheda. È cresciuta nella zona di Chicago. Io nel Kansas. Due midwestern. Questo ci rende parenti. Posso portarle la borsa?

— Per regolamento, dovrei portarla io. Il nemico potrebbe metterci qualcosa. Un congegno d’ascolto, una bomba.

— Siamo perfettamente in grado di sentire con i congegni attualmente situati nelle pareti — disse Hai Atala. — E nessuno metterebbe una bomba nella propria stazione spaziale. — L’alieno fece una pausa. — Non una grossa bomba, comunque. Spero di rivederla più tardi, signora. — Si girò e si allontanò. Anna rimase a guardarlo. — È la mia immaginazione oppure si muove con più grazia degli altri hwar?

— Amano darsi dei nomi l’uno con l’altro — disse Nicholas. — Specialmente gli uomini. Spesso si tratta di nomignoli, e spesso i nomignoli sono odiosi; ma il nomignolo di Hai Atala è L’Aggraziato. È soltanto per il modo in cui si muove. Hai Atala è aggraziato anche in pubblico e aggraziato di spirito, e di vedute molto più ampie della maggior parte del Popolo. Un giovane dabbene destinato a diventare molto importante se non ci sarà una qualche seria guerra. Se finiremo per combattere con la Confederazione, allora si troverà ad avere a che fare con Wally Shen.

— Anche lei ha un nomignolo? — domandò Anna.

— Un paio. L’uomo-che-non-ama-rispondere-alle-domande e L’uomo-che-odia-la-moquette. — Strofinò con i sandali la moquette che copriva il pavimento. — Vivo da vent’anni su questa roba e ha ancora il potere di irritarmi.

Indossava una camicia marrone con le maniche lunghe, pantaloni dello stesso colore e i sandali. Come sempre, il suo vestiario non appariva appropriato. Era come se glielo avesse cucito un sarto che non sapesse bene cosa stesse facendo. Due targhette rotonde erano fissate alla sua cintura: di metallo smaltato con emblemi che Anna non capiva e scarabocchi che dovevano essere quasi certamente scrittura.

— Andiamo — disse Nicholas.

S’incamminarono. Lui si infilò quasi subito le mani nelle tasche e assunse un’andatura che non aveva nulla delle movenze aggraziate di Hai Atala.

— Che fine hanno fatto le uniformi? — domandò Anna, dopo un po’.

— Quello che vede adesso è il vestiario maschile abituale dei hwarhath. Il Popolo è coperto di pelo e gli uomini… in larga misura… vivono in climi artificiali. Perché dovrebbero aver bisogno di vestirsi? Necessitano soltanto di tasche e di un posto cui appendere le loro targhe di identificazione, e hanno bisogno di coprirsi quel tanto che basta perché gente di più modesta cultura non ne sia disturbata. Ed è quello che vede.

— Le uniformi sul pianeta erano false — disse Anna.

— Costumi — disse Nicholas. — Come per una recita. Avevo detto al generale che gli umani avrebbero potuto non prendere sul serio gente che portava pantaloncini corti. Perciò abbiamo messo all’opera i nostri Art Corps perché disegnassero delle uniformi spaziali. Devo dire con buoni risultati. Mi piacciono in modo particolare gli stivali, alti, lucidi, neri, anche se non riesco a immaginare a cosa potrebbero servire. In una stazione spaziale non si va a cavallo, e non si va neppure molto a piedi. E il problema del morso dei serpenti non esiste. Forse vanno bene per prendere a calci i subordinati quando imprecano in lingua aliena. — Anna aveva dimenticato il suono della sua voce, tenorile, leggera, piacevole e piena di divertimento.

— Lo fanno?

— Prendere a calci i subordinati? No, e non imprecano neppure molto. Non ci sono oscenità nella lingua principale hwarhath, proprio nessuna. Non puoi dire a nessuno vaffanculo. Non puoi descrivere niente come cumulo di merda. A volte penso che questo spieghi molte cose sui hwarhath.

Svoltarono in un altro corridoio. Davanti a loro c’era un’alta porta doppia guardata da due soldati con i fucili. Sulla porta c’era un simbolo che partiva dalla linea di divisione delle ante e si divideva in due: fiamme alte un metro circa, in rilievo e dorate.

— Il Focolare — disse Nicholas. — Rappresenta la Divinità e il Mondo Natio, il Centro della Stirpe, e le Donne o, probabilmente, la Donna. — Lanciò un’occhiata a uno dei soldati e disse qualcosa. Il soldato si girò e toccò qualcosa. Le porte si aprirono.

All’interno, c’era un pavimento di legno, giallo chiaro e lucente.

Nicholas entrò, seguito da Anna. Le porte si chiusero alle loro spalle.

Le pareti sembravano intonacate: bianche, con una debole venatura d’azzurro. C’erano arazzi dai colori vivaci che rappresentavano hwarhath nell’atto di fare delle cose incomprensibili per Anna. Un lungo e largo tappeto correva al centro del pavimento. Come gli arazzi, era ricco di colori: rosso, azzurro, verde scuro, arancione e giallo.