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Ettin Petali ha detto: — Porteremo il problema davanti al Weaving, lontano dal figlio di Lugala. Lasceremo che la donna di Lugala ci segua! Tratteremo con lei a casa.

— E porteremo con noi Nicky — ha detto Ettin Sai, in inglese.

— Che cosa? — ho detto io.

E il generale: — Perché?

Ha risposto Ettin Per. — Dobbiamo portarlo via dal perimetro e dagli altri umani. Tu lo capisci, Gwarha. E poi lui è il nostro primo esperto di umanità. Ovviamente, il Weaving vorrà consultarlo. Perciò verrà con noi, e lo terremo d’occhio noi, e nessuno ne sarà sorpreso.

— Volete che traduca questo? — ho chiesto.

— No — ha risposto Ettin Petali. Ha guardato il nipote. — Deve essere fatto. Se venisse deciso che è una persona… non faccio promesse, ma troveremo un modo per rimandarlo indietro.

— E in caso contrario? — ha chiesto Gwarha, con voce aspra.

— Non arriveremo a tanto — ha detto Per.

Probabilmente sarò abbattuto come un cane che ha sviluppato l’abitudine di mordere. Un gradevole pensiero.

— Che cosa succede? — ha domandato Anna.

— Una disputa familiare.

Il generale mi ha guardato. — Nicky…

— Ti viene in mente un’altra strada?

— No.

— Forse è quella migliore. Ti ho detto per anni che i frontisti stavano incasinando tutto. Forse le donne possono fare meglio.

— Certo che possiamo — ha detto la vecchia signora.

È intervenuta Per. — Chiedi alla donna di Perez se se ne starà tranquilla qui alla stazione, intanto che cerchiamo di riprenderci il controllo della situazione, a casa.

Ho tradotto.

— Lei che cosa pensa? — ha domandato Anna.

— Lo faccia.

— D’accordo. Ma se le cose si risolveranno per il meglio, voglio essere il primo umano dopo di lei sul pianeta natio hwarhath.

Non appena la vecchia signora ha sentito che c’è stato un accordo, si è appoggiata allo schienale ed è parsa diventare più piccola. A un tratto, era un fagotto di ossa coperto di pelo bianco. Lo splendido abito ricamato sembrava grottesco, adesso. Ha chiuso gli occhi e le figlie sono parse preoccupate.

— Madre? — ha detto Per.

— Vuoi fare un sonnellino? — ha domandato Aptsi.

— Mandate fuori queste persone… se sono persone. Ho fatto il massimo che ho potuto.

Ce ne siamo andati. Vaihar era ancora nel corridoio. Il generale lo ha congedato. Poi Gwarha e io abbiamo accompagnato Anna nelle sue stanze.

Lei si è fermata sulla porta e ha detto: — È stata una giornata spaventosa.

— Può ringraziare Nicholas — ha detto il generale.

— Parla l’inglese davvero molto bene — ha commentato lei. — Berrò qualcosa e poi farò un sonnellino come sua nonna, la quale probabilmente trita ossa per farne il suo pane.

— Fe-fi — ho detto io.

— Fo-fum — ha ribadito lei ed è entrata.

— Che cos’era? — ha domandato il generale.

— Una storia di bambini, e un modo per ricordarci a vicenda che siamo tutti e due umani.

Siamo tornati indietro, per la stazione. Gli ho parlato della favola di Jack e la pianta di fagiolo.

— Hah — ha detto lui, alla fine. — È interessante notare quanto siete simili a noi, tranne nelle cose in cui siete diversi. Questa storia è come le nostre storie di Furbino e Furbetta.

Siamo arrivati alle sue stanze.

— C’è una domanda che voglio farti, Primo Difensore, ma non voglio che senta qualcuno.

— Me la devi fare adesso?

— Quanto tempo abbiamo?

Gli occhi azzurri mi hanno scrutato, le pupille come sbarre. Il generale ha sospirato lievemente e ha appoggiato il palmo alla porta. — Entra.

Si è seduto sul divano. Mi sono trovato una confortevole porzione di muro per appoggiarmi e da dove poter osservare la sua espressione.

— Fuori la domanda.

— Non mi risulta che tu abbia mai fatto qualcosa di disonorevole fino a ora. Hai infranto una promessa fatta a me e hai infranto una delle regole della guerra. Vorrei sapere perché.

— È ovvio. Ho pensato che mi avresti tradito. — Il generale ha fatto una pausa, poi ha aggiunto: — E avresti tradito il Popolo.

— Perché hai pensato questo?

— Ha qualche importanza? Avevo ragione.

Ho aspettato. Lui ha abbassato lo sguardo.

— È come se ti mettessi un segno addosso quando ti vergogni o sei imbarazzato. Gwarha.

Lui ha alzato la testa e mi ha guardato. — Continuavo a domandarmi di te e di Anna. Lei non è una tua parente. Questa storia dell’affinità familiare tra il Kansas e l’Illinois è una bugia.

A quel punto è caduta la moneta e ho capito che cosa stava pensando. — Stupido stronzo.

— Continuavo a ricordare a me stesso che eravate umani. — La sua voce era lamentosa.

— Che cosa cercavi quando hai fatto mettere i microfoni nelle nostre stanze? Una prova del tradimento? O la prova che mi infilassi nel letto di Anna?

Lui ha fissato la moquette.

— Sciocco, non c’è essere umano che io trovi sessualmente interessante. Siedo nella stanza delle riunioni e guardo gli umani e penso: "Dovrei trovare attraenti questi tipi". Ma non è così. Riesco anche a ricordare che gli umani un tempo mi sembravano bellissimi. Non più. Non in confronto a te e a Vaihar e al povero Matsehar. Ma sono la mia gente, e Anna è mia amica, e io sono troppo arrabbiato per continuare questa conversazione.

Sono andato alla porta. Lui è rimasto sul divano, le spalle curve, la testa bassa, silenzioso.

Ho camminato. Il mio abituale percorso, lontano dalla parte abitata della stazione.

Ho detto ad Anna che la stazione è in gran parte vuota: un guscio. È parzialmente vero, ma una rete di corridoi copre la superficie più interna del cilindro.

Alcuni lo percorrono in tutta la sua lunghezza. Li preferisco quando mi sento intrappolato. Posso guardare davanti e vedere file di luci che si perdono in lontananza.

Altri girano attorno allo spazio centrale, in teoria vuoto. Non mi piacciono. La curva del pavimento e del soffitto è troppo visibile, e non ci sono lunghi campi visivi.

È possibile che quei corridoi siano rimasti così fin dalla costruzione. Sono di solito vuoti e sempre freddi. Ma perché sono tutti pressurizzati? E perché così tante porte con gli emblemi della sicurezza?

So che non risponderai a queste domande, Gwarha. Con ogni probabilità, me ne sarò andato dalla stazione quando leggerai questo. Ti dirò la mia teoria.

Le porte conducono a boccaporti e oltre quelli deve esserci qualcuna delle spiacevoli sorprese del Progrediente Shen Walha. Di che genere, non saprei. Forse una nave da guerra interstellare di classe luat con tutto il suo equipaggio di esploratori e scavatori. Quando percorro i corridoi, mi immagino di fluttuare al centro di una stazione destinata alla diplomazia: immensa, tozza e di orribile aspetto, con i suoi piccoli esploratori come tanti lupetti.

Gli scavatori sono (quasi certamente) in cima: piatti e a forma di lama, come scaglie che coprano l’ampio dorso luat.

Questo mi immagino, Gwarha: una madre-mostro corazzata, come quella della storia di Tsai Ama Ul. Se gli eventi dovessero prendere una brutta piega, potrà essere usata per evacuare le donne o per distruggere la nave umana.

Forse mi sbaglio. Forse non c’è nulla oltre quelle porte. Mi hai detto spesso che ho troppa immaginazione.

Ho camminato per qualche tempo, arrabbiato, e non starò a dirti con quali pensieri: pensieri che provengono dalla collera e dall’autodifesa. Sono arrivato in un’area dove i tubi del soffitto erano bui; soltanto le piccole luci a livello del pavimento erano accese. Mi sono fermato a un incrocio. Un corridoio correva dritto in entrambe le direzioni. L’altro curvava leggermente verso l’alto. L’aria era perfino più fredda del solito e odorava dei prodotti chimici usati per deporre la moquette.