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«Prima fammi vedere le tette.»

«Va’ all’inferno.»

«Non stuzzicarmi. Lo so che mi vuoi.» Il dottore le tirò il top del bikini.

Lo sapevo che dovevo vestirmi prima di venire qui.

Il bikini si lacerò. Lei incrociò le braccia sui seni.

«Va tutto bene, sono un medico.» Lui prese lo stetoscopio. «Fammi solo sentire il cuore.»

Pen non era tanto sicura di tutta questa storia. Probabilmente si trattava di qualche trucco. Ma lui poteva dirle dov’era papà. Abbassò le braccia.

Il dottore si chinò e premette il disco di metallo su un capezzolo. «Tossisci», ordinò.

Non è un medico. Il cuore non è lì. Un autentico medico lo saprebbe.

«Non lo sento. Sdraiati.»

«Per far che cosa?»

«Per fottere fino a farti impazzire.»

«Sei lui!»

Lei gli cacciò un coltello nel ventre, così forte che lo fece piegare in due e lo sollevò da terra. Lui cadde sul pavimento. «Dov’è papà?»

«Non c’era bisogno di ammazzarmi.»

«Tu non sei morto, parli.»

«Ti prenderò!»

Lei corse fuori dalla stanza e guardò dietro quando sentì i passi alle sue spalle. L’uomo la inseguiva, estraendo il coltello dal ventre mentre correva. Il sangue colava dalla ferita imbrattando il pavimento e la parete.

Pen premette il tasto dell’ascensore.

Lui correva sempre più vicino, agitando il coltello sopra la testa.

Ascensore. Sbrigati.

Crepa! Crepa!

Pen saltellava da un piede all’altro, bussò contro la porta dell’ascensore.

L’uomo aveva un ghigno selvaggio. Cominciò a ridere, il sangue gli esplose dalla bocca e dalle narici.

Le porte dell’ascensore presero a scorrere. Pen balzò dentro. Lui si slanciò per raggiungerla, ma le porte si chiusero in tempo, intrappolando un braccio all’altezza del gomito.

L’ascensore cominciò a scendere. Il braccio fra le porte salì fino al soffitto, si staccò e cadde sul pavimento. Non mollò il coltello. Il braccio rotolò, la lama puntata in direzione di Pen compiva piccoli cerchi. Pen indietreggiò. L’ascensore guadagnava velocità. Precipitava.

Dove va?

Perché non rallenta?

Si fermerà di colpo e io cadrò sul coltello. Ma non sarà così.

Sedette sul pavimento dell’ascensore.

Ti ho fregato, bastardo.

L’ascensore si fermò senza sobbalzi.

Le porte si aprirono.

Dietro, l’oscurità.

L’indicatore acceso sopra la porta dell’ascensore diceva S.

Questo è il sotterraneo. Qualcuno ha spento la luce, ecco tutto.

Stranamente, il braccio amputato con il coltello che girava nella mano non preoccupava Pen più del buio fuori dall’ascensore.

Il sotterraneo. Era lì che conservavano i cadaveri. I pazienti che non ce l’avevano fatta. Sistemati nei cassetti.

Lei si spostò evitando il braccio e si fermò al bordo del pavimento dell’ascensore. Sbirciò nel buio totale.

Non voleva uscire là fuori.

Il cuore le martellava per il terrore, faceva fatica a respirare.

«Ehi!» gridò. «C’è qualcuno?»

Nessuna risposta.

Naturale. I morti non parlano.

Chiamò di nuovo: «Ehi!»

«Aiutami!» implorò la voce distante e soffocata di suo padre.

«Vengo subito!»

Se potessi trovare un interruttore… Allungò il braccio fuori dall’ascensore, tastò la parete e una mano gelida le afferrò il polso.

«Ahhhhh!»

Pen si svegliò con un sobbalzo e sentì l’ultima parte del proprio grido nella camera buia. Balzò a sedere ansando.

«Dio Santissimo!» mormorò.

Si tirò una manica sulla faccia per asciugare il sudore. Il pigiama era incollato alla pelle.

Che incubo. Cercò di ricordarlo, ricordò di aver allungato un braccio per cercare l’interruttore. Qualcuno le aveva afferrato la mano.

Doveva esserci dell’altro nel sogno, ma il resto era svanito.

Aveva sentito dire che bisognava aspettare svegli tre o quattro minuti; se uno si riaddormentava troppo presto, poteva ricadere nello stesso incubo.

No grazie.

Inoltre aveva la bocca arida, un leggero mal di testa e doveva far pipì.

Si alzò, staccò il pigiama dalla schiena e dalle natiche e aprì la porta. Il corridoio era buio. Uno degli interruttori si trovava proprio fuori dalla porta. Stava quasi per toccarlo, ma il ricordo dell’incubo la fece rabbrividire. Sentiva la pelle d’oca sulle cosce e sulle braccia, sulla nuca e sulla fronte. La pelle sui capezzoli era tesa e rigida.

È stato solo un maledetto incubo, si disse.

Non riusciva neppure ad allungare il braccio per accendere l’interruttore.

Accese la lampada in camera da letto. Gettava una piccola luce nel corridoio. Non c’era nessuno pronto ad afferrarla. Naturalmente.

Tranquillizzata, si avviò silenziosamente verso il bagno. Usò la toilette. Nell’armadietto dei medicinali trovò una boccetta di Tylenol e ne inghiottì un paio. Mentre tornava nella sua camera, si fermò davanti alla porta di Melanie. La lama di luce sotto l’uscio era sparita. Dentro, nessun rumore. Proseguì verso la sua camera, entrò e si fermò di botto.

Bodie, avvolto in un accappatoio spiegazzato, stava in piedi davanti alla finestra. «Sei abbastanza coperta?» chiese sottovoce senza guardarsi attorno.

Pen chiuse la porta e tirò un sospiro. «Sì, lo sono», rispose. «Che cosa fai qui?»

Lui si voltò. Teneva le mani strette alla vita. I suoi occhi avevano uno sguardo nervoso. Cercò di sorridere, il sorriso svanì rapidamente. «Ho bisogno di parlarti per un paio di minuti. Mi dispiace di essere piombato in camera tua.»

«Non ti preoccupare», disse lei. La sua voce risuonava stranamente soffocata e roca.

Cristo, pensava Pen. È venuto nella mia camera. Che cos’è questa storia?

Lei sedette sul bordo del letto e strinse le mani tremanti. Poi respirò profondamente. Abbassò lo sguardo, vide che il primo bottone era slacciato, lo allacciò e tornò a stringersi le mani.

Bodie si avvicinò a una sedia con lo schienale alto accanto al cassettone. I suoi capelli castano chiaro erano arruffati.

L’accappatoio era chiuso con un cordone stretto in vita. Quando sedette, lui tirò i lembi sulle cosce.

«Hai gridato», disse Bodie.

«Sì. Un incubo. Tremendo.»

«Stai bene?»

Pen annuì.

«Non avevo intenzione di venire, ma ho sentito il grido e poi sei passata davanti alla nostra porta. Io ero sveglio e pensavo…» Bodie s’interruppe, esitando.

«Che cosa?»

«Di dirtelo.»

«Dirmi che cosa?» si stupì lei. Le batteva il cuore.

«Bodie», sussurrò. «Non saresti dovuto venire qui.»

«Lo so, lo so. Melanie mi ucciderebbe…»

«Potresti biasimarla?»

«Non riesco a tenere questa cosa per me.»

«Mi conosci appena.»

«So di potermi fidare di te. Credo che ci saranno guai seri.»

Pen corrugò la fronte sollevata, ma anche un po’ delusa.

«Di che cosa stai parlando?»

«Ti ricordi che cosa è successo in ospedale? Ti ricordi come si è sentita male Melanie?»

«Se mi ricordo? Scherzi?»

«Lei ha detto di non sapere che cos’era la sua visione, ma non era vero. Ricordava tutto. E me ne ha parlato in camera, stanotte.»

Prima o dopo aver fatto l’amore? Si domandò Pen, e subito si sentì furibonda con se stessa per averlo pensato. «Che cosa ha detto?»

«Un altro incidente. Ha visto l’auto accelerare verso di lei, come prima, solo che stavolta ha potuto vedere il conducente. Ha detto che era Harrison Donner.»

«Oh, Dio!» mormorò Pen. «È sicura?»

«Sembrava sicurissima.»

«Harrison ha investito papà?»