Niente di tutto ciò m’interessava abbastanza per spingermi a metterlo a fuoco con impegno. Ero al sicuro nell’appartamento e lui sarebbe arrivato presto, riempiendo le stanze col profumo del suo sangue, e io avrei fatto di tutto per non spezzargli il collo prima di averne bevuta ogni goccia. Sì, questa era la notte fatidica.
In ogni caso, Dora non l’avrebbe scoperto finché non fosse arrivata a casa, l’indomani. Chi mai avrebbe saputo che avevo lasciato il cadavere lì?
Entrai in soggiorno. Era abbastanza pulito; la stanza in cui lui si rilassava, leggeva, studiava e coccolava i suoi oggetti. Lì c’erano i suoi comodi e ingombranti divani, coperti da pile di cuscini, e lampade alogene di metallo nero così leggere, moderne e maneggevoli da sembrare insetti, posate su tavolini, sul pavimento e talvolta su scatoloni di cartone. Il portacenere di cristallo era pieno di mozziconi, il che confermava che lui anteponeva la sicurezza alla pulizia, e qua e là vidi bicchieri in cui il liquore si era seccato da tempo, formando una patina che ormai si sfaldava come lacca. Tende sottili e piuttosto sudicie coprivano le finestre, rendendo la luce sporca e irritante.
Persino quella stanza era gremita di statue di santi... un sant’Antonio assai sinistro che nell’incavo del braccio stringeva un paffuto Bambin Gesù; una Madonna enorme e dall’aria distaccata, ovviamente di origine latinoamericana. E un mostruoso essere angelico di granito nero, che nemmeno coi miei potenti occhi riuscii a esaminare scrupolosamente nella semioscurità, qualcosa che somigliava più a un demone mesopotamico che a un angelo.
Per una frazione di secondo, quel mostro di granito mi fece correre un brivido lungo la schiena. Somigliava... no, dovrei dire che le sue ali mi fecero ripensare alla creatura che avevo intravisto, la Cosa che temevo mi stesse seguendo. Tuttavia non sentii nessun rumore di passi. Non c’era nessuno strappo nel tessuto del mondo. Era una statua di granito, tutto qui, un orrendo oggetto ornamentale che forse proveniva da una macabra chiesa colma d’immagini dell’inferno e del paradiso.
Decine di libri erano posate sui tavolini. Ah, lui amava i libri. Ce n’erano di pregiati, fatti di pergamena e antichissimi, ma anche libri moderni, testi di filosofia e religione, attualità, memorie di corrispondenti di guerra allora in voga, persino qualche volume di poesia. I numerosi volumi di storia delle religioni scritti da Mircea Eliade avrebbero potuto essere il regalo per Dora, e laggiù spiccava una Storia di Dio nuova di zecca a opera di una certa Karen Armstrong. Qualcos’altro sul significato della vita: Capire il presente di Brian Appleyard. Libri impegnativi, ma divertenti. Il mio genere, comunque. E libri che erano stati sfogliati. Sì, conservavano l’odore dell’uomo, intensamente il suo odore, non quello di Dora. Aveva trascorso lì più tempo di quanto avessi immaginato. Passai in rassegna le ombre, gli oggetti, lasciai che l’aria mi riempisse le narici. Sì, era venuto lì spesso e con qualcun altro, e quella persona... quella persona era morta in questo luogo! Finora non me ne ero reso conto, ma tale scoperta rappresentava solo un’ulteriore preparazione al banchetto. Così il trafficante di droga omicida aveva amato un giovane in quest’appartamento, un tempo, e lì non c’era stata solo un’accozzaglia di oggetti. Stavo captando fugaci visioni nel modo peggiore, più emozioni che immagini, e mi ritrovai piuttosto vulnerabile di fronte a quell’assalto. Quella morte non era avvenuta poi tanto tempo prima.
Se avessi incrociato la vittima a quei tempi, quando il suo amico stava morendo, non l’avrei mai scelta, l’avrei semplicemente lasciata passare. Ma all’epoca lui era così appariscente!
Adesso stava salendo i gradini sul retro, la segreta scala interna, con passi cauti, la mano sul calcio della pistola all’interno del cappotto, in stile perfettamente hollywoodiano, benché in lui non ci fossero molti altri aspetti prevedibili... se si escludeva l’eccentricità tipica di molti trafficanti di droga.
Raggiunse la porta posteriore, vide che era aperta. Rabbia. Scivolai nell’angolo di fronte all’imponente statua di granito e mi addossai alla parete, tra due santi polverosi. Non c’era abbastanza luce perché lui potesse vedermi subito. Avrebbe dovuto accendere una delle lampade alogene, o qualche faretto.
In quel preciso istante stava ascoltando, captando. Detestava l’idea che qualcuno avesse forzato la porta di casa sua; era in preda a una furia omicida e aveva tutte le intenzioni d’indagare, da solo; un piccolo processo venne celebrato nella sua mente. No, nessuno poteva sapere di questo posto, decise il giudice. Doveva trattarsi di un ladruncolo, dannazione, e quelle parole erano cariche di rabbia di fronte alla casualità.
Estrasse la pistola e cominciò a perlustrare le stanze, quelle che avevo trascurato. Sentii scattare l’interruttore della luce, vidi il lampo nel corridoio. Lui entrò in un’altra e in un’altra ancora.
Come diavolo poteva stabilire con certezza che l’appartamento era deserto? Insomma, poteva esserci nascosto chiunque. Io sapevo che era deserto, ma che cosa rendeva tanto sicuro lui? Forse, però, era proprio questa la ragione per cui era rimasto vivo così a lungo: possedeva la perfetta combinazione di creatività e noncuranza.
Finalmente si convinse di essere solo. Varcò la soglia del salotto, dando la schiena al lungo corridoio, ed esaminò la stanza, senza vedermi, poi infilò nella fondina da spalla la grossa pistola da nove millimetri e si sfilò molto lentamente i guanti.
C’era abbastanza luce perché io potessi osservare tutto quello che adoravo in lui. I morbidi capelli neri, il viso dai tratti asiatici non facilmente identificabile come indiano, giapponese o tzigano: avrebbe addirittura potuto essere italiano o greco; gli scaltri occhi neri e la perfetta simmetria delle ossa: uno dei pochi tratti che aveva trasmesso alla figlia, Dora. Aveva la carnagione chiara, Dora. Sua madre doveva essere stata di un bianco latteo. Lui invece sfoggiava la mia tonalità preferita, color caramello.
All’improvviso, qualcosa lo rese inquieto. Mi diede le spalle, lo sguardo che si fissava su un oggetto che lo aveva allarmato. Niente a che vedere con me, non avevo toccato nulla. Ma la sua agitazione aveva eretto un muro tra la sua mente e la mia: era in stato di massima allerta, quindi non stava pensando in modo consequenziale.
Era alto, la schiena eretta, il cappotto lungo, le scarpe confezionate a mano a Savile Row, del tipo che i negozi inglesi ti consegnano dopo un’eternità. Si allontanò di un passo da me e io capii, grazie a un guazzabuglio d’immagini, che era stata la statua di granito nero a spaventarlo.
Era evidente: lui ignorava cosa fosse e come fosse finita lì. Si avvicinò, con estrema cautela, come se qualcuno potesse esservi nascosto accanto, poi ruotò su se stesso, esaminò la stanza e sfoderò di nuovo la pistola, lentamente.
Varie possibilità gli stavano attraversando il cervello. Conosceva un mercante d’arte abbastanza stupido per recapitare lì la statua senza poi chiudere la porta a chiave, ma l’uomo lo avrebbe sicuramente avvisato prima di passare.