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Il fumo mi fece bruciare gli occhi. Una donna inginocchiata mi sussurrò: «Adesso so che nessuno tranne me può perdonarmi, ma come ho potuto farle quelle cose, lei era così piccola, co­me ho potuto...»

«Pensavo si trattasse delle altre cose», sussurrò una ragazza che mi aveva gettato le braccia al collo, il suo naso che toccava il mio mentre parlava. «Ma conosci quella gentilezza, quel sempli­ce tenergli la mano e lui...»

«Perdona!» disse Memnoch, e si aprì un varco, spingendo da parte le anime con delicatezza. Ma la folla si riunì di nuovo, pres­sante; pallide figure corsero da me come verso un sollievo che non riuscivo a vedere o verso una fonte di turbamento.

«Perdona!» sussurrò Memnoch. Tirò bruscamente in piedi un monaco coperto di sangue, il saio a brandelli, i piedi pieni di vesciche e ustionati dal fuoco deliberato. «Nel tuo cuore, il pote­re!» gli disse. «Sii migliore di Lui, migliore di Lui, dagli l’esem­pio.»

«Amo... persino Lui», rispose il sussurro uscito dalle labbra dell’anima, mentre si dissolveva all’improvviso. «Sì, Lui non può certo aver voluto che soffrissimo così... non può.»

«Ha superato la prova?» chiesi. «Quell’anima è risultata al­l’altezza in questo luogo infernale, con ciò che ha appena detto? È bastato? Il fatto d’ignorare Dio era sufficiente? Lui sta arran­cando altrove, in tutto questo sudiciume, o il tunnel l’ha portato su? Memnoch! Aiutami.»

Cercai ovunque il monaco coi piedi bruciati. Guardai e guar­dai.

Un’esplosione frantumò le torri della città, che crollarono ro­vinosamente. Quello era il rintocco di una campana? L’enorme moschea si era sbriciolata. Un uomo armato di fucile sparava sul­la gente in fuga. Donne velate gridavano mentre stramazzavano al suolo. La campana suonava a distesa, sempre più forte.

«Buon Dio, Memnoch, una campana che suona, ascolta, più di una.»

«Le campane dell’inferno, Lestat, e non stanno suonando per chiunque! Stanno suonando per noi, Lestat!» Mi prese per il ba­vero come se volesse farmi rialzare. «Ricorda, lo hai detto tu stesso, Lestat, le campane dell’inferno: ascolta la chiamata delle campane dell’inferno!»

«No, lasciami andare. Non sapevo cosa dicevo. Era una poe­sia. Era pura stupidità. Lasciami andare. Non lo sopporto!»

Intorno al tavolo, sotto il lampadario, una dozzina di persone stava discutendo ed esaminando una mappa, alcune si abbrac­ciavano mentre indicavano varie zone contrassegnate da colori opachi. Una testa era voltata. Un uomo? Un viso. «Tu!»

«Lasciami andare.» Mi girai e venni scagliato contro una pa­rete coperta da scaffali di libri, i dorsi che brillavano nella luce, i volumi che cadevano, colpendomi le spalle... Dio santo, le mie membra non avrebbero potuto sopportare altri colpi. Il mio pu­gno penetrò nel mappamondo, fissato al suo elegante arco di le­gno. Un bambino con le ginocchia piegate mi stava fissando dal basso, le orbite oculari vuote.

Vidi la soglia e fuggii. «No, lasciami andare. Non posso. Non lo farò. Non lo farò.»

«Non lo farai?» Memnoch mi afferrò il braccio destro, un fo­sco cipiglio che svettava sopra di me, le ali che si flettevano e si sollevavano, escludendo di nuovo la luce mentre si chiudevano per avvilupparmi, come se appartenessi a lui. «Non mi aiuterai a svuotare questo posto, a mandare queste anime in paradiso?»

«Non posso!» gridai. «Non lo farò!» D’un tratto, la mia fu­ria montò. La sentii annullare paura, tremori e dubbi; la sentii sfrecciarmi nelle vene come metallo fuso. L’antica rabbia, la determinazione di Lestat. «Non sarò parte di tutto ciò, non per te, non per Lui, non per loro né per chicchessia!» Indietreggiai vacil­lando, guardandolo in cagnesco. «No, non questo. Non per un Dio cieco come Lui, e non per qualcuno che esige quello che tu esigi da me. Voi due siete pazzi! Non ti aiuterò. No. Mi rifiuto.»

«Tu faresti una cosa del genere, mi abbandoneresti?» gridò Memnoch, sconvolto, il viso scuro contorto dal dolore, le lacri­me che brillavano sulle guance nere. «Mi lasceresti con tutto ciò e non alzeresti un dito per aiutarmi dopo tutto ciò che hai fatto? Tu, Caino, uccisore dei fratelli, uccisore degli innocenti, non puoi aiutarmi?»

«Smettila, smettila. Non lo farò. Non posso sostenere tutto questo. Non posso evitare che succeda! Non posso crearlo! Non posso sopportarlo! Non posso insegnare in questa scuola!» La mia gola era secca e bruciava, e il frastuono sembrava inghiottire le mie parole, ma lui le sentì. «No, no, non lo farò, non questa trama, non queste regole, non questo disegno, mai, mai, mai!»

«Vigliacco», ruggì lui, gli occhi a mandorla immensi, il fuoco che guizzava sulla fronte e le guance dure e nere. «Ho in mano la tua anima, ti offro la salvezza a un prezzo che quanti stanno sof­frendo qui da millenni implorerebbero di poter pagare!»

«Non io. Non sarò parte di questo dolore, no, né adesso né mai... Va’ da Lui, cambia le regole, fa’ in modo che abbia senso, miglioralo, ma non questo, questo è al di là della sopportazione umana, è ingiusto, ingiusto, ingiusto, è inconcepibile.»

«Questo è l’inferno, sciocco! Cosa ti aspettavi? Di poter ser­vire il Signore dell’inferno senza soffrire?»

«Non farò loro una cosa simile!» gridai. «All’inferno con me e con te.» Stavo digrignando i denti. Fumavo di rabbia ed ero agitato dalla mia convinzione. «Non parteciperò a tutto questo con loro! Non capisci! Non posso accettarlo! Non posso dedi­carmi a questo. Non posso consentirlo. Ti lascio subito, mi hai concesso la libertà di scegliere, torno a casa! Liberami!» Mi vol­tai.

Lui mi ghermì di nuovo il braccio e stavolta la rabbia dentro di me non conobbe limiti. Lo scaraventai all’indietro, al di sopra delle anime che si dissolvevano e precipitavano. Qua e là i morti servizievoli si voltarono a guardare e gridarono, i pallidi visi ovali pieni di ansia e turbamento.

«Ora vai», sibilò Memnoch, mentre era riverso a terra, là do­ve l’avevo scagliato. «E, che Dio mi sia testimone, quando mori­rai, tornerai come mio allievo e studente, in ginocchio, e mai più ti sarà proposto di diventare il mio principe, il mio aiutante!»

Rimasi paralizzato, girando la testa per fissarlo, per fissare la sua figura prostrata, il gomito che affondava nel soffice piumaggio nero dell’ala mentre si alzava sugli zoccoli e si avvicinava di nuovo a me, con quella mostruosa andatura zoppicante.

«Mi hai sentito?»

«Non posso servirti!» tuonai con tutto il fiato che avevo in gola. «Non posso farlo.» Poi mi voltai per l’ultima volta, sapen­do che non mi sarei guardato indietro, con un solo pensiero nella mente: Scappa! Cominciai a correre a perdifiato, slittando sulla marna friabile e sulla riva scivolosa, e attraversando con passo deciso i torrenti poco profondi e i capannelli di morti servizievo­li sbalorditi, e oltrepassando anime gemebonde.

«Dove sono le scale? Dove sono le porte? Non puoi negarme­lo. Non ne hai il diritto. La morte non mi ha preso!» gridai, ma senza mai guardare indietro o smettere di correre. «Dora! Da­vid, aiutami!» urlai.

E giunse la voce di Memnoch, quasi accanto al mio orecchio. «Lestat, non farlo, non andare. Non tornare indietro. Lestat, non farlo, è una follia, non capisci, ti prego, per l’amor di Dio, se riesci ad amare Lui e ad amare loro, aiutami!»

«No!» Mi voltai e gli diedi una spinta violenta, e lo vidi ruz­zolare all’indietro giù per i ripidi gradini, la figura inebetita, gof­fa, grottesca in mezzo alle enormi ali fluttuanti. Ruotai su me stesso, dandogli la schiena. Davanti a me riuscivo a vedere la luce proprio in cima, la porta aperta.

Corsi da quella parte.

«Fermatelo! Non lasciatelo uscire. Non lasciategli portare via il velo», gridò Memnoch.

«Ha il velo di Veronica!» urlò uno dei morti servizievoli, lan­ciandosi verso di me nell’oscurità.