Per poco il mio piede non scivolò, ma continuai a correre, un passo dopo l’altro, saltellando, le gambe doloranti. Sentivo che i morti servizievoli guadagnavano terreno.
«Fermatelo!»
«Non lasciatelo scappare !»
«Fermatelo!»
«Prendetegli il velo», gridò Memnoch. «Sotto la sua camicia, il velo, il velo non deve andarsene con lui!»
Feci oscillare la mano sinistra, spingendo i morti servizievoli contro la scogliera, in un caos informe. Molto più su si stagliava la porta. Riuscivo a vedere la luce. La vedevo e sapevo che era la luce della terra, brillante e naturale.
Le mani di Memnoch si serrarono sulle mie spalle e lui mi costrinse a voltarmi.
«No, non farlo!» ringhiai. «Che Dio mi perdoni. Che tu mi perdoni, ma non prenderai me o il velo!» tuonai. Sollevai il braccio sinistro per scostare le sue mani protese, artiglianti, e lo spinsi di nuovo, ma lui volò contro di me come se le ali fossero accorse in suo aiuto, e mi schiacciò quasi sugli scalini. Sentii le sue dita affondare nel mio occhio sinistro! Le sentii aprire le palpebre, spingermi l’occhio all’interno della testa in un’esplosione di dolore, e poi la massa gelatinosa mi scivolò lungo una guancia, passando tra le mie dita tremanti.
Sentii Memnoch ansimare. «Oh, no...» gemette, le dita posate sulle labbra, fissando orripilato lo stesso oggetto che fissavo io.
Il mio occhio, il mio rotondo occhio azzurro, vibrante e scintillante sulla scala. Tutti i morti servizievoli fissavano l’occhio.
«Calpestatelo, schiacciatelo», gridò uno di loro e corse in avanti. «Sì, schiacciatelo, calpestatelo, distruggetelo!» urlò un altro, avventandocisi sopra.
«No, non fatelo, no! Fermatevi, tutti! Non nel mio regno, non lo farete!» gemette Memnoch.
«Calpestate l’occhio!»
Quello era il mio momento, la mia occasione.
Corsi su, i piedi che toccavano a malapena i gradini, sentii la mia testa e le spalle tuffarsi nella luce, nel silenzio e nella neve.
Ero libero.
Mi trovavo sulla terra. I miei piedi calpestavano il terreno ghiacciato sotto la scivolosa poltiglia di neve. Stavo correndo, guercio e sanguinante, col velo sotto la camicia, correndo attraverso la violenta bufera, attraverso le raffiche di neve, le mie grida che riecheggiavano sugli edifici che conoscevo, gli scuri e ostinati grattacieli della città che conoscevo così bene. Casa, la terra. Il sole era appena tramontato dietro il velo grigio scuro del turbine che calava, il crepuscolo invernale inghiottito nell’oscurità dal candore della neve.
«Dora, Dora, Dora!»
Continuai a correre.
Mortali immersi nell’ombra arrancavano stancamente nella tormenta; umani immersi nell’ombra percorrevano, veloci, sentierini sdrucciolevoli di ghiaccio, automobili strisciavano attraverso l’uragano, i fari che scrutavano il biancore che si accumulava sempre più alto. La neve cadeva in folate così dense che finii lungo disteso, ma poi m’inginocchiai faticosamente e continuai ad avanzare.
Gli archi e le guglie di San Patrizio si levarono di fronte a me. San Patrizio.
E, dietro, la parete dell’Olympic Tower che saliva, il suo vetro come pietra lucidata, quasi invisibile, la sua altezza gigantesca come se, simile alla torre di Babele, stesse cercando di raggiungere direttamente il paradiso.
Mi fermai, il cuore sul punto di scoppiare.
«Dora! Dora!»
Raggiunsi le porte dell’atrio, le luci abbaglianti, i pavimenti lisci, la ressa di mortali, solidi mortali ovunque, che si voltavano per vedere ciò che si muoveva troppo rapidamente per poter essere visto. Musica indistinta e luci rasserenanti, il fiotto del calore artificiale! Trovai le scale e mi levai in volo come cenere che salga su per una canna fumaria, e infine piombai attraverso la porta di legno dell’appartamento, entrando con passo malfermo.
Dora.
La vidi, sentii il suo odore, l’odore del sangue tra le sue cosce, vidi il suo tenero visino, bianco e sconvolto, e accanto a lei, ai due lati, come folletti usciti da filastrocche per bambini o racconti dell’inferno, Armand e David, vampiri, mostri, che mi fissavano con la stessa assoluta meraviglia.
Mi sforzai di aprire l’occhio sinistro che non c’era più, quindi girai la testa da una parte e dall’altra per vederli tutti e tre con l’unico occhio che mi restava, il destro. Sentivo un dolore acuto, come se migliaia di aghi fossero conficcati nei tessuti vuoti che un tempo avevano ospitato il mio occhio.
Ah, l’orrore sul viso di Armand. Era immobile, sfoggiava i suoi vecchi vestiti eleganti, pesante giacca di velluto, pizzo moderno, stivali tirati a lucido come cristallo. Il suo volto, che ricordava quello di un angelo del Botticelli, era straziato dal dolore mentre mi guardava.
E David, la compassione, l’empatia. Entrambe le figure paralizzate in una sola, l’anziano inglese e il giovane corpo prestante in cui era stato imprigionato, oppresso dagli indumenti invernali di tweed e cashmere.
Mostri vestiti da uomini, ma legati alla terra, reali!
E la lucente figura da monella di Dora, la mia snella, desiderata Dora dagli enormi occhi neri.
«Caro, caro, sono qui!» gridò. Le sue sottili braccia tiepide mi cinsero le spalle doloranti, indifferenti alla neve che mi cadeva dai capelli, dai vestiti. M’inginocchiai, il viso nascosto nella sua gonna, vicino al sangue tra le sue cosce, il sangue del ventre vivente, il sangue della terra, il sangue di Dora che il corpo poteva offrire, e poi caddi supino sul pavimento.
Non riuscivo a parlare né a muovermi. Sentii le sue labbra toccare le mie.
«Adesso sei al sicuro, Lestat», disse lei.
Oppure era la voce di David?
«Sei con noi», disse Dora.
Oppure era Armand?
«Siamo qui.»
«Guardate, guardate i suoi piedi. Gli è rimasta solo una scarpa.»
«... la sua giacca, stracciata... i bottoni scomparsi.»
«Tesoro, tesoro.» Dora mi baciò.
La feci rotolare delicatamente, badando di non schiacciarla col mio peso, le sollevai la gonna e posai il viso sulle sue cosce calde e nude. L’odore del sangue mi riempì il cervello.
«Perdonami, perdonami», sussurrai, e la mia lingua penetrò nel cotone sottile delle sue mutandine, strappando il tessuto e scostandolo dalla soffice peluria del suo pube, spingendo da parte il tampone insanguinato, e lappai il sangue appena dentro le sue giovani labbra vaginali rosa, appena giunto dall’imboccatura del suo ventre, non sangue puro, ma sangue proveniente da lei, dal suo forte e giovane corpo, il sangue di tutte le cellule roventi della sua carne vaginale, sangue che non recava nessun dolore, nessun sacrificio, solo la gentile pazienza di Dora nei miei confronti, nei confronti del mio indescrivibile atto, la mia lingua che penetrava a fondo dentro di lei, estraendo il sangue che ancora doveva arrivare, delicatamente, delicatamente, leccandolo sui soffici peli delle sue labbra pubiche, succhiandone ogni minuscola goccia.
Immondo, immondo. L’avevano gridato sulla strada verso il Golgota, quando Veronica aveva detto: «Signore, per dodici anni ho sofferto di un’emorragia, ma quando ho toccato l’orlo della tua veste sono guarita». Immondo, immondo.
«Immondo, grazie a Dio, immondo», sussurrai, la mia lingua che leccava il luogo segreto e insanguinato, gusto e odore di sangue, il suo dolce sangue, un luogo dove il sangue scorre libero e nessuna ferita viene inflitta o richiede mai di essere inflitta, l’accesso al suo sangue che mi veniva offerto nella sua indulgenza.
La neve batteva contro i vetri. Riuscivo a sentirla, a sentirne l’odore, l’accecante neve candida di una tempesta terribile per New York, un profondo inverno bianco, che gelava tutto sotto il suo mantello.
«Mio tesoro, mio angelo», sussurrò lei.