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Rimasi sdraiato su Dora, ansimando. Tutto il sangue era en­trato in me, ormai. Avevo estratto dal suo ventre tutto quello che doveva arrivare e avevo leccato persino quello che si era raccolto sul tampone.

Lei si mise seduta, cercando di coprirmi circondandomi con le sue braccia, chinandosi in avanti come per ripararmi dai loro occhi — quelli di David e di Armand —, senza avermi mai spinto via nemmeno una volta, senza aver urlato o essersi ritratta, e adesso mi teneva la testa mentre piangevo.

«Sei al sicuro», ripetè. Dicevano che ero al sicuro. Dicevano tutti: «al sicuro» come se le due parole avessero un potere magi­co. Al sicuro, al sicuro, al sicuro.

«Oh, no», gridai. Piansi. «No, nessuno di noi è al sicuro. E non lo saremo mai, mai, mai più...»

22

Non permisi a nessuno di loro di toccarmi. Voglio dire che non rinunciai a niente, neanche alla mia scarpa a brandelli, a niente. Tenete lontani i vostri pettini, le vostre salviette, il vostro confor­to. Mi aggrappai al segreto che nascondevo sotto la camicia.

Un sudario, ecco cosa chiesi, un drappo pesante in cui avvol­germi. Lo trovarono, una coperta, morbida, di lana, non aveva importanza.

L’appartamento era quasi vuoto.

Avevano trasferito a sud i tesori di Roger. Me lo raccontarono. Il compito era stato affidato ad agenti mortali, e la maggior parte delle statue e delle icone era finita nell’orfanotrofio di New Orleans, nella cappella vuota che avevo visitato, dove un tempo c’e­ra solo il Cristo crocifisso. Un bel presagio!

Non avevano ancora portato a termine quest’incarico: resta­vano alcuni oggetti preziosi, un baule o due, e scatoloni di docu­menti, fascicoli.

Ero rimasto lontano per tre giorni. I notiziari dedicavano am­pio spazio a resoconti sulla morte di Roger. Ma loro tre non vol­lero dirmi come fosse stata scoperta. La lotta per il potere nel mondo degli oscuri e criminali cartelli della droga era in pieno svolgimento. I giornalisti avevano smesso di chiamare la stazione televisiva chiedendo di Dora. Nessuno era a conoscenza dell’ap­partamento di New York, nessuno sapeva che lei era lì.

Pochissime persone sapevano dell’orfanotrofio, in cui lei pro­gettava di tornare, quando tutte le reliquie di Roger vi fossero state trasferite.

Il network via cavo aveva cancellato il suo spettacolo. La figlia del gangster non predicava più. Lei non aveva più visto le sue se­guaci né parlato con loro. Dagli articoli di giornale e da estratti di servizi televisivi aveva appreso che lo scandalo le aveva confe­rito una vaga aura di mistero. Ma, in linea di massima, non le ve­niva data troppa importanza: una televangelista di scarso rilievo che non sapeva nulla delle attività paterne.

Dora aveva perso ogni contatto col suo mondo precedente, stando in compagnia di David e Armand a New York, mentre l’inverno più rigido degli ultimi cinquant’anni si abbatteva sulla città, la neve che scendeva dal paradiso... vivendo tra le reliquie e apprendendo da loro, ascoltandone il dolce conforto, i racconti meravigliosi, non sapendo bene cosa fare, continuando a credere in Dio...

Queste erano le ultime notizie.

Presi la coperta che mi offrivano e attraversai, senza una scar­pa, l’appartamento. Entrai nella stanzetta. Mi avvolsi la coperta sulle spalle. La finestra era schermata. Nessun raggio di sole sarebbe entrato.

«Non avvicinatevi», intimai. «Ho bisogno di dormire come un mortale. Ho bisogno di dormire per tutta la notte e per tutto il giorno, e solo dopo vi racconterò ogni cosa. Non toccatemi, non avvicinatevi.»

«Posso dormire tra le tue braccia?» chiese Dora, un’appari­zione bianca e vibrante ritta sulla soglia, i suoi angeli-vampiri che la seguivano.

La stanza era buia. C’era rimasta solo una cassapanca conte­nente alcune reliquie.

«No. Quando sorge il sole, il mio corpo farà tutto ciò che gli è possibile per proteggersi da ogni eventuale intrusione mortale. Non puoi accompagnarmi in quel sonno. Non è possibile.»

«Allora lascia che mi sdrai accanto a te adesso.»

Gli altri due fissarono, al di sopra delle sue spalle, le mie pal­pebre sinistre che sbattevano dolorosamente l’una contro l’altra sulla vuota cavità orbitale. Doveva esserci del sangue, ma le no­stre emorragie si arrestano in fretta. L’occhio era stato strappato alla radice. Cos’era la sua radice? Sentivo ancora l’odore del dol­ce, squisito sangue che avevo preso da Dora. L’avevo sulle lab­bra, il suo sangue.

«Lasciatemi dormire», dissi.

Chiusi a chiave la porta e mi sdraiai sul pavimento, le ginocchia accostate al petto, al caldo e al sicuro nelle spesse pieghe della coperta, sentendo l’odore degli aghi di pino e del terriccio attaccati ai miei vestiti, e il fumo, e i frammenti di escrementi sec­chi, e il sangue, naturalmente, il sangue umano, il sangue versato sui campi di battaglia, e il sangue di Hagia Sophia quando il neo­nato morto mi era caduto addosso, e l’odore dello stereo di ca­vallo, e l’odóre della marna dell’inferno.

Tutto ciò era avvolto con me nella coperta, la mia mano sulla protuberanza formata dal velo piegato contro il mio petto nudo.

«Non avvicinatevi!» sussurrai ancora una volta per le orec­chie degli immortali lì fuori, così attoniti e disorientati.

Poi mi addormentai.

Dolce riposo. Dolce oscurità.

Magari la morte fosse stata così. Magari si potesse dormire, dormire e dormire in eterno.

23

Rimasi privo di sensi per ventiquattro ore filate, svegliandomi so­lo la sera successiva, mentre il sole moriva dietro il cielo inverna­le. Alcuni dei miei vestiti migliori erano stesi ordinatamente e in bella mostra sulla cassapanca di legno, con accanto un paio di scarpe.

Cercai d’immaginare chi avesse effettuato quella selezione tra tutti gli indumenti che David aveva mandato lì per me dall’alber­go vicino. L’ipotesi più logica era che fosse stato lui. E sorrisi, ripensando a quanto spesso, nel corso della nostra vita, David e io fossimo rimasti intrigati dall’avventura dell’abbigliamento.

Ma, vedete, se un vampiro tralascia dettagli come il vestiario, la storia non ha senso. Persino i personaggi mitici più noti — se sono fatti di carne e sangue — devono preoccuparsi dei lacci dei sandali.

Ebbi allora la consapevolezza di essere tornato dal regno in cui i vestiti cambiavano forma secondo la volontà di chi li indos­sava, la consapevolezza di essere coperto di polvere e di avere una scarpa sola.

Mi alzai, all’erta, estrassi con cautela il velo senza stenderlo o rischiare di guardarlo, pur avendo l’impressione d’intravedere l’immagine scura attraverso il tessuto. Mi sfilai tutti gli indumen­ti, li impilai sulla coperta affinchè non si perdesse neanche un ago di pino. E poi entrai nel bagno vicino — la consueta stanza di piastrelle e intenso vapore — e mi lavai come un uomo che venga battezzato nel Giordano. David mi aveva preparato tutti i giocat­toli necessari: pettini, spazzole, forbici. Ai vampiri non occorre altro.

Lasciai aperta la porta del bagno. Se qualcuno avesse osato metter piede in camera sarei balzato fuori della cascata di vapore e gli avrei intimato di uscire.

Alla fine emersi, lindo e grondante, mi pettinai, mi asciugai accuratamente e indossai i miei indumenti freschi di bucato, strato dopo strato, partendo dai boxer di seta, dalla canottiera e dai calzini neri per poi passare a pantaloni di lana, camicia, pan­ciotto e blazer a doppiopetto di un completo blu.

Poi mi chinai per raccogliere il velo piegato. Lo strinsi delica­tamente, senza avere il coraggio di aprirlo. Tuttavia riuscivo a ve­dere la chiazza scura sul lato opposto del tessuto. Stavolta ne ero sicuro. Infilai il velo sotto il panciotto, che abbottonai.

L’occhio, buon Dio, l’occhio!

Le mie dita salirono a esaminare l’orbita vuota, le palpebre leggermente rugose che cercavano di chiuderla. Cosa fare, cosa fare? Se solo avessi avuto una benda nera, una benda da genti­luomo. Ma non l’avevo.