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Il mio viso era profanato dall’occhio mancante. Mi resi conto che stavo tremando violentemente. David mi aveva lasciato una delle mie ampie cravatte simili a sciarpe, di seta viola; me l’avvol­si intorno al collo, in modo che restasse dritta come un antico colletto, molto rigida, circondata da vari strati di tessuto, pro­prio come si potrebbe vedere in un ritratto di Beethoven. Ne in­filai le estremità nel panciotto. Nello specchio, il mio occhio bril­lò assumendo il colore viola della sciarpa. Vidi la macchia nera sul lato sinistro e mi costrinsi a guardarla invece di cercare sem­plicemente di compensarla.

M’infilai le scarpe, fissai di nuovo gli abiti rovinati, raccolsi qualche granello di polvere e qualche pezzetto di foglia secca e posai tutto, accuratamente, sulla coperta, in modo da conservar­ne il più possibile, poi uscii in corridoio.

L’appartamento era piacevolmente tiepido e invaso da un tipo di incenso assai popolare ma non opprimente... qualcosa che mi fece pensare alle chiese cattoliche dei tempi antichi, quando il chierichetto faceva oscillare il turibolo appeso alla catenella.

Quando entrai in soggiorno, li vidi tutti e tre molto distinta­mente, disposti nello spazio vivacemente illuminato, la luce uniforme che trasformava in uno specchio le pareti di vetro die­tro le quali la neve continuava a cadere. Volevo vedere la neve. Li oltrepassai e posai l’occhio contro il vetro. Adesso il tetto di San Patrizio era tutto imbiancato di neve fresca, le alte guglie che se ne scuotevano di dosso il più possibile, anche se ogni minimo motivo ornamentale era decorato di bianco. La strada era un’imperturbabile vallata candida. Lo spazzaneve aveva smesso di pas­sare?

Alcuni newyorkesi si muovevano lì sotto. Si trattava soltanto di esseri viventi? Li fissai con l’occhio destro. Riuscivo a vedere solo quelli che sembravano i viventi. Esaminai il tetto della chiesa, improvvisamente quasi in preda al panico, aspettandomi di vedere un doccione inserito nelle decorazioni prendere vita e os­servarmi. Ma non percepii la presenza di nessuno tranne i tre nella stanza, persone che amavo, che stavano rispettando me e il mio silenzio, melodrammatico e autoindulgente.

Mi voltai. Armand si era vestito ancora una volta di velluto e pizzo ricamato di gran moda, il genere di «nuovo look romanti­co» che si poteva trovare in uno qualsiasi dei negozi situati nel profondo crepaccio sotto di noi. I suoi capelli fulvi erano sciolti e lasciati crescere, e gli ricadevano sulla schiena come secoli pri­ma, quando, in qualità di santo demoniaco dei vampiri di Parigi, non si sarebbe mai concesso la vanità di tagliarne un solo riccio­lo. Erano talmente puliti da brillare, ramati nella luce e contro lo sfondo rosso sangue della sua giacca. E i suoi occhi tristi e sem­pre giovanili mi fissavano, le lisce guance da ragazzino, la bocca da angelo. Era seduto al tavolo, in atteggiamento riservato, col­mo d’amore e curiosità, e persino di vaga umiltà che sembrava voler dire: «Accantona tutte le nostre dispute. Sono qui per te».

«Sì, grazie», dissi ad alta voce.

Sedeva lì anche David, il robusto, giovane angloindiano dalla pelle bruna, affascinante e desiderabile come sempre, sin dalla notte in cui lo avevo reso uno di noi. Indossava il suo completo inglese di tweed, coi gomiti protetti da pezze di pelle, un pan­ciotto aderente come il mio e una sciarpa di cashmere che gli ri­parava il collo dal freddo cui forse, nonostante il suo vigore, non si era ancora abituato del tutto.

È strano come sentiamo il freddo; puoi ignorarlo e poi, a un tratto, sentirtene offeso.

La mia radiosa Dora sedeva di fianco a lui, di fronte ad Ar­mand, e David si trovava in mezzo a loro, davanti a me. Era rima­sta a mia disposizione la sedia con lo schienale rivolto verso il ve­tro e il cielo, se la volevo. La fissai. Un oggetto così semplice, una sedia nera laccata, dal design orientale, vagamente cinese, fun­zionale e costosa.

Dora si alzò, le gambe che parvero sbocciare sotto di lei. In­dossava un sottile, lungo abito di seta color borgogna, semplicis­simo, il tepore artificiale che la avviluppava e la difendeva dal freddo. Le braccia erano nude e bianche; il viso colmo di preoc­cupazione, il caschetto di lucidi capelli neri che formava due punte sui lati del volto, al centro della guancia, il tipo di pettina­tura di gran moda ottant’anni fa e oggigiorno. I suoi occhi erano quelli di un gufo, e colmi d’amore.

«Cos’è successo, Lestat?» chiese. «Oh, ti prego, ti prego, raccontacelo.»

«Dov’è l’altro occhio?» chiese Armand. La domanda era proprio da lui. Non si era alzato in piedi. David, l’inglese, si era alzato perché lo aveva fatto Dora, ma Armand era rimasto sedu­to a guardarmi, ponendo una domanda diretta. «Cosa ne è sta­to? Lo hai ancora?»

Guardai Dora. «Avrebbero potuto salvare l’occhio», dissi, ci­tando il suo racconto su zio Mickey, «se solo quei gangster non l’avessero calpestato!»

«Di cosa stai parlando?» chiese lei.

«Non so se hanno calpestato il mio occhio», risposi, irritato dal tremito nella mia voce e dal tono drammatico in quella di lei. «Non erano gangster, erano fantasmi, e io sono scappato, la­sciando là il mio occhio. Quella era la mia unica chance. L’ho la­sciato su un gradino. Forse lo hanno schiacciato oppure spalma­to a terra come un grumo di grasso, non lo so. Zio Mickey fu se­polto col suo occhio di vetro?»

«Sì, credo di sì», rispose Dora, intontita. «Nessuno me l’ha mai detto.»

Riuscii a percepire che gli altri due stavano scrutando nella sua mente, e Armand anche nella mia, percepii che stavano cap­tando le immagini di zio Mickey, quasi ucciso a calci nel Corona’s Bar di Magazine Street, e del gangster con la scarpa a punta che spiaccicava l’occhio.

Dora boccheggiò. «Cosa ti è successo?»

«Hai spostato le cose di Roger?» chiesi. «Quasi tutte?»

«Sì, si trovano nella cappella del Santa Elisabetta, al sicuro», rispose. «Santa Elisabetta». Era il nome del vecchio orfanotro­fio. Non glielo avevo mai sentito pronunciare, prima. «A nessu­no verrà mai in mente di cercarle lì. Ormai la stampa non s’inte­ressa più a me. I nemici di Roger girano intorno ai suoi contatti d’affari come avvoltoi; si concentrano sui suoi conti bancari e sulle cassette di sicurezza, uccidendo per questa o quella chiave. Tra i suoi compagni più intimi, sua figlia è stata dichiarata acci­dentale, irrilevante, rovinata. Del tutto insignificante.»

«Grazie a Dio», mormorai. «Li hai avvisati della sua morte? Finirà presto tutto ciò, la sua storia e la parte che sei costretta a recitarvi?»

«Hanno trovato la sua testa», dichiarò quietamente Armand. Cominciò a spiegare in tono sommesso. Dei cani l’avevano estratta da un cumulo d’immondizia e se la stavano litigando sot­to un ponte. Per un’ora un vecchio era rimasto a guardarli, scal­dandosi accanto a un fuoco, e poi si era reso conto che era una testa umana quella che i cani si stavano contendendo e che stava­no mordicchiando. La testa venne consegnata alle autorità com­petenti e, grazie agli esami genetici di capelli e pelle, si scoprì che era appartenuta a Roger. Le radiografie dentali non furono di nessun aiuto perché i denti di Roger erano perfetti. Restava solo l’identificazione da parte di Dora.

«Evidentemente, lui voleva che la trovassero», dichiarai.

«Cosa ti spinge a dirlo?» chiese David. «Dove sei stato?»

«Ho visto tua madre», spiegai a Dora. «Ho visto i suoi capel­li biondi e i suoi occhi azzurri. Non passerà molto tempo prima che giungano in paradiso.»

«Cosa mai stai dicendo, mio caro?» domandò. «Angelo mio, cosa mi stai dicendo?»

«Sedetevi. Vi racconterò tutta la storia. Ascoltate tutto ciò che vi dirò senza interrompermi. No, non voglio sedermi, non dando la schiena al cielo, alla tromba d’aria, alla neve e alla chie­sa. No, passeggerò avanti e indietro; ascoltate ciò che devo dirvi. Tenetelo bene a mente: tutto quello che vi racconto è successo a me! Potrei essere stato beffato. Potrei essere stato ingannato. Ma questo è ciò che ho visto coi miei stessi occhi e sentito con le mie stesse orecchie!»