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Raccontai tutto, dall’inizio, anche alcune cose che ognuno di loro aveva già sentito, ma che non avevano mai sentito tutti e tre insieme... dalla mia prima, fatale e fugace visione di Roger e dal mio amore per il suo sfacciato e candido sorriso e per i suoi col­pevoli e scintillanti occhi neri fino al momento in cui mi ero lan­ciato fuori della porta dell’appartamento la sera prima.

Raccontai tutto. Ogni parola pronunciata da Memnoch e da Dio Incarnato. Ogni cosa che avevo visto in paradiso e all’infer­no e sulla terra. Raccontai dell’odore e dei colori di Gerusalem­me. Raccontai e raccontai e raccontai...

La storia divorò l’intera nottata. Divorò le ore, mentre io pas­seggiavo avanti e indietro, farneticando, ripetendo le parti che volevo risultassero ben chiare, le fasi dell’evoluzione che avevano scioccato gli angeli, le enormi biblioteche del paradiso, il pe­sco recante sia fiori sia frutti, Dio, e il soldato sdraiato supino al­l’inferno che rifiutava di arrendersi. Descrissi l’interno di Hagia Sophia. Parlai degli uomini nudi sul campo di battaglia. Descris­si ripetutamente l’inferno. Descrissi il paradiso. Ripetei il mio di­scorso finale, imperniato sul fatto che non potevo aiutare Mem­noch, non potevo insegnare nella sua scuola!

Mi fissavano, ammutoliti.

«Hai il velo?» chiese infine Dora, col labbro tremante. «Lo hai ancora?»

L’inclinazione della sua testa sembrava così gentile, come se lei fosse stata prontissima a perdonarmi se le avessi risposto: «No, l’ho perso per strada, l’ho dato a un mendicante!»

«Il velo non prova niente», dichiarai. «Qualunque cosa vi sia impressa non prova niente! Chiunque sia capace di creare illu­sioni come quella può creare un velo! Non prova niente, né ve­rità né menzogne, né inganno o stregoneria o teofania.»

«Quando eri all’inferno, hai detto a Roger di avere il velo?» chiese lei, in modo così cortese, il suo viso bianco che scintillava nel tepore della lampada.

«No, Memnoch me l’ha impedito. L’ho visto solo per un mi­nuto, capisci, l’intera situazione cambiò completamente nel giro di un secondo. Ma lui sta salendo, lo so, sta salendo perché è intelligente e ha capito, e Terry andrà con lui! Saranno ben presto tra le braccia di Dio, a meno che Dio non sia altro che un presti­giatore da due soldi e tutto questo non sia stato che una menzo­gna, ma a che pro? A quale scopo?»

«Non credi alla richiesta che Memnoch ti ha fatto?» do­mandò Armand.

Solo in quel momento notai quanto fosse scosso, come somi­gliasse al ragazzo che doveva essere stato prima che lo trasfor­massero in un vampiro, come fosse giovane e pieno di grazia ter­rena. Voleva che fosse vero!

«Oh, sì, ci credo!» risposi. «Gli credevo, ma tutto poteva es­sere una menzogna, non capisci?»

«Non percepivi l’autenticità del suo bisogno di te?» chiese lui.

«Cosa?» domandai. «Siamo tornati a questo, alla discussione per stabilire se, quando serviamo Satana, serviamo o no Dio? Tu e Louis che ne discutete nel Teatro dei Vampiri, cercando di decidere se, essendo figli di Satana, siamo figli di Dio?»

«Sì», rispose Armand. «Gli credevi?»

«Sì. No. Non lo so», dissi. «Non lo so!» gridai. «Odio Dio più che mai. Sono furibondo con entrambi, accidenti a loro!»

«E Cristo?» chiese Dora, gli occhi colmi di lacrime. «Gli di­spiaceva per noi?»

«Sì, a modo suo. Sì. Forse. Chissà! Ma non ha affrontato la Passione come un semplice uomo, come Memnoch l’aveva im­plorato di fare, ha portato la sua croce come Dio Incarnato. Vi dico che le loro regole non sono le nostre regole! Noi abbiamo creato regole migliori! Siamo in balia di eventi folli!»

Lei proruppe in grida sommesse, dolenti. «Perché non pos­siamo scoprirlo mai e poi mai?» urlò.

«Non lo so!» dichiarai. «So che erano là, che mi sono appar­si, che mi hanno permesso di vederli. Eppure non lo so ancora!»

David si era accigliato, un po’ come avrebbe potuto fare Memnoch, immerso nelle sue riflessioni. Poi chiese: «Se era tut­ta una serie di trucchi, di immagini estrapolate dal tuo cuore e dalla tua mente, qual era lo scopo? Se non si trattava di una proposta diretta di diventare suo luogotenente o suo principe, quale poteva essere la motivazione?»

«Cosa ne pensi?» chiesi. «Hanno il mio occhio! Te lo ripeto, nemmeno una parola di quanto ho raccontato è una mia bugia. Hanno il mio dannato occhio, maledizione. Non so di cosa si sia trattato, so solo che era tutto vero, verissimo, fino all’ultima silla­ba.»

«Sappiamo che tu credi che sia vero», intervenne Armand. «Sì, ne sei fermamente convinto. Ne sei stato testimone. Io cre­do che sia vero. Durante le mie lunghe peregrinazioni nella valle della morte ho creduto che fosse vero!»

«Non essere stupido», lo rimproverai con amarezza. Ma ve­devo la fiamma sul viso di Armand; vedevo l’estasi e il dolore nei suoi occhi. Vedevo la sua figura interamente galvanizzata dalla credenza, dalla conversione.

«Gli abiti nell’altra stanza, li hai conservati, così potranno co­stituire una prova scientifica», dichiarò David in tono pacato e meditabondo.

«Smetti di pensare come uno studioso. Ci sono esseri che gio­cano un gioco che solo loro possono capire. Non avrebbero nes­suna difficoltà a far aderire aghi di pino e sporcizia ai miei abiti, ma, sì, ho conservato quelle reliquie, sì, ho conservato tutto tran­ne il mio dannato occhio, che ho lasciato sui gradini dell’inferno per poter uscire. Anch’io voglio analizzare le prove su quei vesti­ti. Anch’io voglio scoprire qual è la foresta in cui ho camminato e in cui l’ho ascoltato!»

«Ti hanno lasciato uscire», constatò David.

«Se tu avessi potuto vedere il suo viso quando ha notato quel­l’occhio sul gradino», mormorai.

«Cosa c’era sul suo viso?» chiese Dora.

«Orrore, orrore per il fatto che fosse successa una cosa simile. Vedi, quando ha allungato la mano per afferrarmi, credo che due sue dita, tenute in questo modo, siano entrate nella mia orbita oculare, mancando il bersaglio. Lui voleva semplicemente pren­dermi per i capelli. Ma quando le sue dita si sono infilate nell’or­bita, lui ha cercato, orripilato, di estrarle, e l’occhio è uscito, rotolandomi lungo la guancia, e lui era in preda all’orrore!»

«Lo ami», disse Armand in tono sommesso.

«Lo amo. Sì, credo che lui abbia ragione su tutto. Ma non credo in niente!»

«Perché non hai accettato?» chiese lui. «Perché non gli hai dato la tua anima?»

Oh, come suonava innocente, come dava l’impressione che la domanda gli uscisse dal cuore, antico e infantile, un cuore dalla forza così sovrannaturale che c’erano volute centinaia di anni perché potesse battere insieme coi cuori mortali senza provocare disastri.

Armand, diavoletto!

«Perché non hai accettato?» implorò.

«Ti hanno lasciato scappare, e avevano uno scopo», constatò David. «Come la visione che ho avuto nel caffè.»

«Sì, avevano uno scopo», ammisi. «Ma l’ho vanificato?» Lo guardai, cercando una risposta; lui, il saggio, l’anziano quanto ad anni umani. «David, li ho sconfitti quando ti ho separato dalla vita? Li ho sconfitti in qualche altro modo? Oh, se solo riuscissi a ricordare le loro voci all’inizio. Vendetta. Qualcuno disse che non si trattava di semplice vendetta. Ma quei brandelli di con­versazione erano importanti. Adesso non riesco a ricordare. Co­s’è successo? Torneranno a prendermi?»

Ricominciai a piangere. Stupido. Ricominciai a descrivere Memnoch, in tutte le sue forme, persino quella di Uomo Comu­ne che era stata così fuori della norma nelle sue dimensioni, i passi assillanti, le ali, il fumo, la gloria del paradiso, il canto degli angeli... «Zaffirino...» sussurrai. «Quelle superfici, tutte le cose che i profeti videro per poi disseminare, in tutti i loro libri, paro­le come topazio, berillo, fuoco, oro, ghiaccio e neve, ed era tutto là... e Lui disse: ‘Bevete il mio sangue!’ Io l’ho fatto!»