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«Mi è stato dato per te», spiegò.

«Da chi?» chiesi.

«Dalla persona di cui vedrai la calligrafia all’interno. Leggi.»

«Al diavolo!» imprecai. Con le dita della mano destra aprii la pergamena stropicciata, strappandola.

Il mio occhio. Il mio occhio brillava lì, sopra le righe scritte. Quel pacchettino conteneva il mio occhio; il mio occhio avvolto in una lettera. Il mio occhio azzurro, intatto e vivo.

Boccheggiando, lo presi e lo infilai nell’orbita indolenzita e dolorante, sentendo i suoi filamenti protendersi fino al cervello, intrecciandosi al suo interno. Il mondo divenne perfettamente visibile, in un lampo.

Lei era ferma a fissarmi.

«Hai detto che urlerò?» gridai. «Urlare? Perché? Cosa pensi che veda? Vedo solo ciò che vedevo prima!» Guardai da destra a sinistra, l’orrenda chiazza di oscurità ormai scomparsa, il mondo nella sua interezza, il vetro istoriato, il terzetto immobile che mi fissava. «Oh, grazie, Dio!» sussurrai. Ma cosa significava? Era una preghiera di ringraziamento o una semplice esclamazione?

«Leggi ciò che è scritto sulla pergamena», disse Maharet.

Una calligrafia arcaica, di cosa si trattava? Un’illusione! Paro­le di un linguaggio che non era affatto un linguaggio, eppure chiaramente articolate, tanto che potevo estrapolarle dal disegno ondeggiante, scritte con sangue, inchiostro e fuliggine:

Al mio Principe,

i miei ringraziamenti per un lavoro

svolto alla perfezione.

Con affetto,

Memnoch il Diavolo

Cominciai a ruggire. «Bugie, bugie, bugie!» Sentii le catene. «Quale metallo pensi che possa legarmi, abbattermi? Dannazio­ne a voi! Bugie! Voi non l’avete visto. Lui non vi ha dato que­sto!»

David, Louis, la forza di Maharet, la sua forza inconcepibile — sin da epoche immemorabili, prima ancora che le prime tavolet­te venissero incise a Gerico —, mi circondarono, m’imprigionaro­no. Fu lei più di loro; io ero suo figlio, che si dibatteva e la male­diceva.

Mi trascinarono via nell’oscurità, le mie urla che rimbalzava­no sulle pareti, fino alla stanza che avevano scelto per me con le finestre murate, priva di luce, una prigione sotterranea, le catene che giravano tutt’intorno mentre mi divincolavo.

«Sono bugie, bugie, bugie! Non ci credo! Se sono stato ab­bindolato, è stato Dio a farlo!» Continuai a urlare. «È stato lui a farlo. Non è reale a meno che non l’abbia fatto Lui, Dio Incarna­to. Non Memnoch. No, mai, mai. Bugie!»

Alla fine rimasi disteso lì, impotente. Non m’interessava. C’era qualcosa di consolante nell’essere incatenato, nell’essere inca­pace di percuotere le pareti coi pugni fino a spappolarli o sbatte­re la testa contro i mattoni, o peggio...

«Bugie, bugie, è tutto un immenso panorama di bugie! Non ho visto altro! Un ennesimo circo massimo di bugie!»

«Non sono solo bugie», disse lei. «Non tutte. È il dilemma antico come il tempo.»

Mi zittii. Sentivo il mio occhio sinistro inserirsi più a fondo e rafforzarsi nel mio cervello. Avevo quello. Avevo il mio occhio. E ripensavo al suo viso, al viso di Memnoch distorto dall’orrore quando aveva guardato il mio occhio, e alla storia dell’occhio di zio Mickey. Non riuscivo a capire. Avrei ricominciato a urlare.

Mi sembrò di sentire la voce gentile di Louis che protestava, supplicava, discuteva. Sentii chiavistelli che venivano tirati, chio­di che venivano conficcati nel legno. Sentii Louis che implorava.

«Per un po’,solo per un po’...» lo tranquillizzava lei. «È troppo potente perché noi possiamo fare altro. L’unica alternati­va sarebbe sbarazzarsi di lui.»

«No», gridò Louis.

Sentii David che protestava dicendo che, no, lei non poteva farlo.

«Non lo farò», rispose serafica Maharet. «Ma lui resterà qui finché non deciderò che può andarsene.»

E si allontanarono.

«Cantate», sussurrai. Stavo parlando ai fantasmi dei bambi­ni. «Cantate...»

Ma il convento era deserto. Tutti i piccoli fantasmi erano fug­giti. Il convento era mio. Il servo di Memnoch; il principe di Memnoch. Ero solo nella mia prigione.

26

Due notti, tre notti. Fuori, nella città del mondo moderno, il traffico sfrecciava nell’ampio viale. Ogni tanto passava una cop­pia, sussurrando nelle ombre della sera. Un cane ululava.

Quattro notti, cinque notti?

David era seduto accanto a me a leggere il manoscritto della mia storia, parola per parola, tutto ciò che avevo detto, come lo ricordava, fermandosi ripetutamente per chiedere se era esatto, se quelle erano davvero le parole che avevo pronunciato, se quel­la era l’immagine.

E lei rispondeva.

Dal suo posto nell’angolo confermava: «Sì, è questo che ha visto, è questo che ti ha detto. È questo che vedo nella sua men­te. Queste sono le sue parole. Questo è ciò che ha provato».

Finalmente, dopo circa una settimana, lei svettò sopra di me e mi chiese se avevo sete di sangue. Risposi: «Non lo berrò mai più. Diventerò secco come un oggetto duro fatto di calcare. Mi getteranno in una fornace».

Una sera venne Louis, sfoggiando la tranquilla disinvoltura di un cappellano che entri in una prigione, immune dalle regole ep­pure senza rappresentare una minaccia per esse. Si sedette al mio fianco a gambe incrociate, e guardò altrove, come se non fosse educato fissare me, il prigioniero, avvolto in catene e rabbia.

Posò le dita sulla mia spalla. I suoi capelli avevano un taglio alla moda, erano spuntati e pettinati, e non pieni di polvere. An­che i suoi abiti erano puliti e nuovi, come se si fosse vestito appo­sta per me. Quell’idea mi fece sorridere. Di tanto in tanto lo face­va, e quando vedevo che la camicia aveva bottoni d’oro e di perle lo capivo, e lo accettavo così come un malato accetta un panno fresco posato sulla sua fronte.

Le sue dita aumentarono leggermente la pressione sulla mia spalla, e anche quello mi piacque. Ma non intendevo dirglielo.

«Ho letto i libri di Wynken», disse. «Sai, li ho recuperati. So­no tornato a prenderli. Li avevamo lasciati nella cappella.» E mi guardò rispettosamente.

«Oh, grazie di averlo fatto», risposi. «Li ho lasciati cadere al buio. Li ho lasciati cadere quando ho allungato la mano per prendere l’occhio, oppure lei mi ha preso la mano? Comunque sia, ho lasciato cadere i sacchetti coi libri. Non riesco a spostare queste catene. Non posso muovermi.»

«Ho portato i libri nella nostra casa di rue Royale. Si trovano lì, sparpagliati come gioielli perché possiamo ammirarli.»

«Sì. Hai guardato le miniature? Le hai guardate davvero, vo­glio dire?» chiesi. «Io non le ho mai guardate davvero. Ho so­lo... stava succedendo tutto così in fretta, e non ho davvero avuto il tempo di aprire i libri. Ma se tu avessi potuto vedere il suo fan­tasma nel bar e sentire come li descriveva...»

«Sono splendidi. Sono magnifici. Li adorerai. Ti aspettano anni di piacere coi libri e la luce al tuo fianco. Ho soltanto inizia­to a guardarli e a leggerli. Con una lente d’ingrandimento. Ma tu non ne avrai bisogno. I tuoi occhi sono più forti dei miei.»

«Forse possiamo leggerli... tu e io... insieme.»

«Sì... tutti e dodici i suoi libri», rispose. Parlò sommessamen­te di piccole immagini miracolose, di esseri umani minuscoli, e animali e fiori, e il leone che giaceva con l’agnello.

Chiusi gli occhi. Ero colmo di gratitudine. Ero soddisfatto. Lui sapeva che non volevo più parlare.

«Resterò là, nel nostro appartamento, ad aspettarti. Non pos­sono tenerti qui ancora a lungo.»