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Cosa significava, a lungo?

Sembrava che il clima fosse più mite.

David avrebbe potuto venire.

A volte chiudevo occhi e orecchie e mi rifiutavo di ascoltare qualunque suono volutamente indirizzato a me. Sentivo le cicale frinire quando il cielo era ancora arrossato dal sole, e gli altri vampiri dormivano. Sentivo gli uccelli che scendevano in pic­chiata sui rami delle querce di Napoleon Avenue. Sentivo i bam­bini!

I bambini vennero da me. E talvolta uno o due di loro parla­vano con un sussurro concitato, come se si scambiassero confi­denze sotto una tenda fatta con un lenzuolo. E dei piedi sulle scale. E poi, da dietro i muri, l’altissimo, amplificato rumore del­la notte elettrica.

Una sera aprii gli occhi e le catene erano scomparse.

Ero solo e la porta era aperta.

I miei abiti erano a brandelli, ma non m’importava. Mi alzai, scricchiolando, dolorante, e per la prima volta in forse due setti­mane mi posai la mano sull’occhio e lo sentii ben saldo al suo po­sto, anche se naturalmente avevo sempre visto attraverso di esso. E avevo smesso di pensarci da tempo.

Uscii dall’orfanotrofio, passando dal vecchio cortile. Per un attimo mi sembrò di vedere delle altalene in ferro, del tipo che veniva collocato nei vecchi parchi giochi per bambini. Vidi le strutture metalliche a forma di A alle estremità, e la sbarra oriz­zontale, e le altalene stesse, e i bambini che si dondolavano, ra­gazzine coi capelli al vento, e li sentii ridere. Alzai gli occhi, in­tontito, verso le finestre di vetro istoriato della cappella.

I bambini erano scomparsi. Il cortile era deserto. Il mio palaz­zo, adesso. Lei aveva tagliato tutti i ponti. Aveva raggiunto da tempo la sua grande, grande vittoria.

Camminai a lungo sulla St. Charles Avenue. Camminai sotto querce che conoscevo, su vecchi marciapiedi e distese di matto­ni, superando case vecchie e nuove, e attraversai Jackson Avenue raggiungendo la bizzarra mescolanza di taverne e insegne al neon, di edifici chiusi con assi e case fatiscenti e negozi eleganti, lo sgargiante territorio selvaggio che si estende fino al centro città.

Arrivai a un emporio vuoto che un tempo aveva venduto auto costose. Per cinquant’anni lì erano state messe in vendita mac­chine di lusso, ma adesso era solo un’enorme stanza vuota con le pareti di vetro. Vidi il mio riflesso nella vetrata. La mia vista so­prannaturale era di nuovo quella di un tempo, perfetta, in en­trambi gli occhi.

E vidi me stesso.

Voglio che mi vediate adesso. Voglio che mi guardiate mentre mi presento e giuro sulla veridicità di questo racconto, mentre giuro sulla veridicità di ogni sua parola, dal profondo del cuore.

Sono il vampiro Lestat. Questo è ciò che ho visto. Questo è ciò che ho sentito. Questo è ciò che so! Questo è tutto ciò che so.

Credete a me, alle mie parole, a ciò che ho detto e a ciò che è stato scritto.

Sono qui, ancora qui, l’eroe dei miei stessi sogni, e, vi prego, lasciatemi conservare un posto nei vostri.

Io sono il vampiro Lestat.

Lasciatemi passare dalla fiction alla leggenda, adesso.

FINE

9.43, 28 febbraio 1994.

Adieu, mon amour.