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Lui allungò una mano verso un altro faretto alogeno, strinse il metallo caldo e puntò il fascio di luce sull’ala del demone, quella che riuscivo a vedere meglio, e anch’io notai la perfezione cui stava pensando, la passione tipicamente barocca per i dettagli. No, lui non collezionava quel tipo di oggetti. Preferiva il grotte­sco, e quella statua era grottesca solo per puro caso. Dio, era or­ribile. Aveva un’incolta criniera di capelli, un cipiglio che avreb­be potuto benissimo essere stato disegnato da William Blake, ed enormi occhi rotondi che lo fissavano con apparente odio.

«Blake, sì! Blake. Questa dannata statua somiglia a uno dei disegni di Blake», esclamò improvvisamente lui, e si voltò.

Mi resi conto che mi stava fissando. Avevo proiettato all’ester­no la mia riflessione, con noncuranza, certo, ovviamente con uno scopo ben preciso. Sentii lo shock della connessione. Lui mi vi­de; forse vide gli occhiali, e la luce, o forse i miei capelli.

Mi staccai lentamente dal muro, con le braccia che penzolava­no lungo i fianchi. Speravo che non ci fosse, da parte sua, nessu­na reazione tanto volgare come allungare la mano verso la pisto­la. Tuttavia lui si limitò a guardarmi, forse accecato dall’intensa luce così vicina a sé. Il fascio luminoso dell’alogena proiettava sul soffitto l’ombra dell’ala dell’angelo. Mi avvicinai ancora.

Lui non disse assolutamente niente. Aveva paura, o, meglio, diciamo che era allarmato, anzi più che allarmato. Sospettava che quello potesse rivelarsi il suo ultimo confronto diretto. Qual­cuno aveva eluso la sua sorveglianza! Ed era troppo tardi per cercare di estrarre la pistola o fare qualunque altro gesto altret­tanto prosaico; eppure, non aveva paura di me, in realtà.

E che io sia dannato se non sapeva che non ero umano.

Lo raggiunsi in un lampo e gli serrai il viso con entrambe le mani. Cominciò a sudare e a tremare, ma sollevò una mano per togliermi gli occhiali, che caddero a terra.

«Oh, è magnifico, esserti così vicino, finalmente!» sussurrai.

Non riusciva ad articolare le parole. Era impossibile che un mortale stretto così nella mia morsa riuscisse a pronunciare altro che preghiere, e lui non ne conosceva nessuna! Mi fissò dritto negli occhi e poi, molto lentamente, mi esaminò, non osando muoversi, il viso ancora serrato dalle mie mani gelide, e lo sape­va. Sapeva che non ero umano.

Fu una reazione davvero stranissima! Naturalmente, mi era già capitato di essere riconosciuto, in terre all’altro capo del mondo; ma la scoperta era sempre stata accompagnata da qual­cosa, preghiera, pazzia, una disperata reazione atavica. Persino nella vecchia Europa, dove credevano al nosferatu, urlavano una preghiera prima che io affondassi i miei denti.

Ma questo, cos’era questo? Il suo fissarmi, questo comico co­raggio criminale!

«Morirai così come hai vissuto?» bisbigliai.

Un pensiero lo galvanizzò. Dora. Cominciò a lottare strenua­mente, afferrandomi le mani, rendendosi conto che sembravano di pietra e poi cadendo in preda a convulsioni mentre cercava di divincolarsi, di sfilare il viso dalla mia stretta spietata. M’inveì contro, sibilando.

Un’inspiegabile misericordia s’impadronì di me. Non tortu­rarlo così. Sa troppe cose; capisce troppe cose. Dio, hai avuto a disposizione mesi e mesi per tenerlo d’occhio, non devi prolun­gare la sua agonia. D’altra parte, quando ti ricapiterà un’uccisio­ne come questa?

Be’,la fame ebbe la meglio sul buonsenso. Prima premetti la fronte sul suo collo, spostando la mano sulla sua nuca, gli lasciai sentire i miei capelli, lo udii trattenere il fiato e poi bevvi.

Lo presi. Percepii lo zampillo, e lui e il vecchio capitano nella stanza anteriore, il tram che passava là davanti sferragliando, e lui che diceva al vecchio capitano: «Se me lo mostri di nuovo o mi chiedi di toccarlo non mi avvicinerò mai più a te». E il vec­chio capitano che giurava di non farlo. Il vecchio capitano che lo portava al cinema, a cenare al Monteleone e sull’aereo diretto ad Atlanta, dopo aver promesso solennemente di non farlo mai più: «Permettimi solo di starti vicino, solo di starti vicino, mai più, lo giuro». Sua madre ubriaca in piedi sulla soglia, intenta a spazzolarsi i capelli. «So a cosa stai giocando, so benissimo cosa state facendo tu e il vecchio. Ti ha comprato lui quei vestiti? Non cre­dere che io non sappia cosa sta succedendo.» E poi Terry col fo­ro di proiettile al centro della fronte, una ragazza bionda che si gira di fianco e stramazza sul pavimento, il quinto omicidio, e de­vi essere tu, Terry, tu. Lui e Dora si trovavano sul furgone. E Do­ra sapeva. Dora aveva solo sei anni e sapeva. Sapeva che lui le aveva ucciso la mamma, Terry. E non avevano mai, mai, pronun­ciato una sola parola in proposito. Il corpo di Terry in un sacco di plastica. Ah, Dio, plastica. E lui che diceva: «Mammina è parti­ta». Dora non aveva nemmeno fatto domande. Sei anni, e sape­va. Terry che urlava: «Pensi di potermi rubare la mia bambina, figlio di puttana, pensi di poter prendere mia figlia. Me ne vado stasera con Jake, e lei viene con me». Bang, sei morta, tesoro. Non ti sopportavo comunque. Ridotta a un ammasso informe sul pavimento, il tipo assai appariscente di ragazza dozzinale, con unghie rosa chiaro perfettamente ovali, rossetto che sembra sempre appena applicato, e capelli tinti. Short rosa, cosce snelle. Lui e Dora che viaggiavano nella notte, in macchina, e non ave­vano mai detto una parola.

Cosa mi stai facendo? Mi stai uccidendo! Stai prendendo il mio sangue, non la mia anima, ladro, tu... Cosa succede, in nome di Dio?

«Stai parlando con me?» Mi ritrassi, il sangue che mi colava dalle labbra. Dio santo, stava parlando con me! Lo morsi di nuo­vo e stavolta gli spezzai il collo, ma lui continuò.

Sì, tu, cosa sei? Perché, perché questo, il sangue? Dimmelo, che tu sia dannato! Che tu sia dannato!

Gli avevo frantumato le ossa delle braccia, slogato la spalla, le ultime gocce di sangue che potevo ottenere si trovavano sulla mia lingua. La infilai nella ferita, dammi, dammi, dammi...

Ma qual è, qual è, il tuo nome, per Dio, chi sei?

Era morto. Lo lasciai cadere e mi ritrassi. Parlare con me! Parlare con me durante l’uccisione? Chiedere a me chi ero? Riu­scire a penetrare il deliquio?

«Oh, sei così pieno di sorprese», mormorai. Cercai di chiarir­mi le idee. Ero colmo di sangue tiepido. Lo trattenni in bocca. Volevo sollevare l’uomo da terra, squarciargli i polsi, bere tutto quello che restava, ma era così sgradevole e, a dire il vero, non avevo alcuna intenzione di toccarlo di nuovo! Deglutii e mi pas­sai la lingua sui denti, gustando il sangue per l’ultima volta; lui e Dora sul furgoncino, lei di soli sei anni, mammina morta, un proiettile in testa, col papà per sempre, adesso.

«Quello fu il quinto omicidio!» mi aveva detto lui ad alta vo­ce, lo avevo sentito. «Chi sei?»

«Parlare con me, bastardo!» Abbassai lo sguardo su di lui; oh, il sangue mi stava giusto inondando i polpastrelli, e scenden­do lungo le gambe; chiusi gli occhi e pensai: vivi per questo, solo per questo, per questo gusto, questa sensazione. Mi tornarono in mente le sue parole, dette a Dora in un bar di lusso: «Ho vendu­to l’anima per posti come questo».

«Oh, per l’amor del cielo, muori, dannazione!» esclamai. Vo­levo che il sangue continuasse ad ardere, ma ne avevo abbastan­za di lui, diamine, sei mesi erano davvero tanti per una relazione amorosa tra un vampiro e un essere umano! Alzai gli occhi.

L’oggetto nero non era affatto una statua. Era vivo. E mi stava studiando. Era vivo, respirava e mi stava osservando da sotto il suo furibondo cipiglio di un nero scintillante, guardandomi dal­l’alto.