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Lanciai un’ultima occhiata all’espressione accigliata dell’an­gelo, demone o qualunque cosa fosse, con la sua criniera ribelle, le splendide labbra e gli enormi occhi lucenti. Poi, caricandomi in spalla i tre sacchi come Babbo Natale, uscii per sbarazzarmi di Roger, pezzo per pezzo.

Non fu un grosso problema. Approfittai per riflettere mentre arrancavo lungo le strade innevate, deserte e buie, verso i quar­tieri residenziali, in cerca di tetri e caotici cantieri edili, cumuli d’immondizia, luoghi dove si erano accumulati marciume e sporcizia e che molto probabilmente non sarebbero stati esami­nati né sgomberati di lì a breve.

Seppellii le sue mani in un gigantesco ammasso di rifiuti sotto un cavalcavia dell’autostrada. I pochi mortali che oziavano in quel luogo, con delle coperte e un focherello acceso in un conte­nitore di latta, non badarono a me. Spinsi le mani avvolte nella plastica così a fondo tra le macerie che era impensabile che qual­cuno potesse cercare di recuperarle. Poi mi avvicinai ai mortali, che non alzarono nemmeno gli occhi, e lasciai cadere alcune banconote accanto al fuoco. Per poco il vento non le portò via. Poi una mano, una mano vivente, è ovvio, la mano di uno di quei vagabondi, saettò nella luce del fuoco, le prese e tornò nell’oscu­rità.

«Grazie, fratello.»

Risposi: «Amen».

Mi sbarazzai della testa, in maniera molto simile, a notevole distanza da lì. Un cassonetto accanto a una porta di servizio. Ri­fiuti bagnati di un ristorante. Tanfo. Non diedi un’ultima occhia­ta alla testa. M’imbarazzava. Non era un trofeo. Non avrei mai conservato la testa di un uomo come trofeo. L’idea mi sembrava deplorevole. Non mi piaceva la sua consistenza rigida attraverso la plastica. Se l’avessero trovata gli affamati non avrebbero mai avvisato la polizia. Inoltre, gli affamati erano già passati di lì per ritirare la loro parte di pomodori, lattuga, spaghetti e croste di pane francese. Il ristorante aveva già chiuso da ore. L’immondi­zia era gelata e tintinnò e si mosse rumorosamente mentre spin­gevo in fondo la testa.

Tornai in centro, sempre a piedi, con l’ultimo sacco sulla spal­la, il suo povero torace, le braccia e le gambe. Percorsi la Quinta, oltre l’albergo in cui dormiva Dora, oltre la chiesa di San Patrizio, sempre più avanti, oltrepassando i negozi di lusso. I mortali var­cavano correndo le porte sotto le tende di riparo; i tassisti furi­bondi suonavano il clacson contro le massicce e lente limousine.

Continuai a camminare. Prendevo a calci la fanghiglia e mi odiavo. Riuscivo a sentire l’odore dell’uomo e odiavo anche que­sto. Ma, in un certo senso, il banchetto era stato talmente divino che trovavo appropriato che richiedesse questo anticlimax, que­sta accurata pulizia.

Gli altri — Armand, Marius, tutti i miei compagni, amanti, amici, nemici immortali — mi maledicevano sempre per la mia abitudine di non «sbarazzarmi dei resti». Be’,stavolta Lestat stava facendo il bravo vampiro. Stava riordinando dopo il suo passaggio.

Ero quasi arrivato al Village quando trovai un altro posto per­fetto, un enorme deposito apparentemente abbandonato, con le finestre rotte ai piani superiori. E, all’interno, un enorme cumulo di rifiuti di ogni tipo. Sentii la puzza di carne umana in decom­posizione. Qualcuno era morto lì, tre settimane prima. Solo il freddo impediva al tanfo di raggiungere le narici umane. O forse nessuno se ne curava.

Mi addentrai ulteriormente nella stanza cavernosa; odore di benzina, metallo, mattoni rossi. Una montagna d’immondizia grande come una pira funeraria si stagliava al centro del locale. Un camion era parcheggiato vicino a essa, il motore ancora cal­do; però non individuai esseri viventi. C’era parecchia carne umana in decomposizione nell’ammasso più ampio. Il puzzo mi permise d’identificare almeno tre cadaveri, sparpagliati tra i ri­fiuti. Forse ce n’erano di più. L’odore era ripugnante, così non persi troppo tempo ad analizzare la situazione.

«Okay, amico mio, ti lascio in un cimitero», dissi. Spinsi il sacco a fondo, ben a fondo, tra bottiglie rotte, lattine schiacciate, pezzi di frutta marcia, pile di cartone, legno e immondizia. Per poco non provocai una valanga. In realtà, si udì un paio di lievi scosse dei rifiuti, poi la sgraziata piramide si riformò silenziosa­mente. Gli unici rumori erano quelli prodotti dai topi. Una bot­tiglia di birra, silenziosa e solitaria, rotolò sul pavimento, a circa un metro dal «monumento».

Per un lungo istante studiai il camion; malconcio, anonimo, il motore caldo, odore di occupanti umani allontanatisi da poco. Cosa facessero lì era irrilevante. Sapevo che andavano e veniva­no varcando le grandi porte metalliche, ignorando oppure ali­mentando quest’ossario. Molto più probabilmente, ignorando­lo. Chi mai parcheggerebbe accanto alle proprie vittime? Ma in tutte queste grandi città popolose, mi riferisco alle città impor­tanti, ai covi del male di fama mondiale — New York, Tokyo, Hong Kong —, si possono trovare le attività mortali più bizzarre. La criminalità, con le sue numerose sfaccettature, aveva comin­ciato ad affascinarmi. Ecco cosa mi aveva condotto a lui.

Roger. Addio, Roger.

Uscii. Aveva smesso di nevicare. Regnava un’atmosfera deso­lata. Un logoro materasso giaceva in un angolo dell’isolato, co­perto di neve. I lampioni erano rotti. Non sapevo di preciso dove mi trovavo. Mi diressi verso l’acqua, fino all’estremità dell’isola, poi vidi una di quelle chiese molto antiche, risalenti all’epoca olandese di Manhattan, con annesso un piccolo cimitero cintato, sulle cui lapidi si leggevano distintamente date impressionanti quali 1704 o addirittura 1692.

L’edificio era un piccolo gioiello gotico, un frammento della magnificenza di San Patrizio, forse addirittura più elaborato e misterioso; uno spettacolo che, per la ricchezza di dettagli e la struttura, risultava ancor più gradito, se confrontato con l’insul­saggine e la desolazione della metropoli.

Mi sedetti sui gradini della chiesa, ammirando le superfici scolpite degli archi decorati e valutando la possibilità di riaffon­dare nel buio addossandomi alla pietra consacrata.

Mi accertai che il Pedinatore non fosse nei paraggi, che le at­tività di quella notte non avessero evocato visitatori provenienti da un altro reame oppure passi inquietanti, e che la statua di gra­nito fosse inanimata. Controllai se avevo ancora in tasca i docu­menti di Roger: questo avrebbe fatto sì che passassero settimane, forse mesi, prima che la pace mentale di Dora venisse turbata dalla scomparsa del padre, di cui lei non avrebbe mai scoperto i dettagli.

Ecco fatto. La fine dell’avventura. Mi sentivo meglio, molto meglio di quando avevo parlato con David. Tornare indietro, studiare quella mostruosa scultura di granito, era stata una mos­sa geniale.

L’unico problema era che il puzzo di Roger mi si era attaccato addosso. Roger. Fino a quando era stato «la vittima»? Adesso lo stavo chiamando Roger. Era un segno d’amore? Dora lo chiama­va Roger, papà, Roge e pa’. «Tesoro, sono Roge», diceva lui, chiamandola da Istanbul. «Puoi raggiungermi in Florida per qualche giorno? Ho bisogno di parlarti...»

Estrassi i documenti falsi. Il vento era impetuoso e freddo, ma aveva smesso di nevicare e la neve sul terreno si stava indurendo. Nessun mortale si sarebbe seduto lì così, sotto l’alto arco decora­to del portale di una chiesa, ma a me piaceva.

Esaminai il passaporto contraffatto. In realtà, si trattava di un set completo di documenti falsi, alcuni dei quali mi risultavano incomprensibili. C’era un visto per l’Egitto. Roger aveva sicura­mente portato fuori da quel Paese della merce di contrabbando! E il nome Wynken mi fece sorridere perché è uno di quelli di cui ridono persino i bambini, quando lo sentono. Wynken, Blinken e Nod, i tre personaggi della filastrocca infantile.