Mi guardò. Notai che i suoi capelli neri e ricciuti erano ben pettinati, gli occhi molto limpidi. Il bel Roger. La sua voce era identica a quella che aveva avuto da vivo: priva di accento, tipica di un nativo di New Orleans che abbia viaggiato in tutto il mondo. Nessuna pignoleria inglese e nessuna indolenza sudista. La sua voce precisa, rapida.
«Parlo sul serio. Vuoi dire che, in tutti questi anni, nemmeno una vittima è mai tornata a tormentarti?» ripetè.
«No», risposi.
«Sei davvero incredibile. Non sopporti di aver paura neanche per un istante, vero?»
«No.»
Adesso sembrava del tutto solido. Non sapevo se anche gli altri riuscissero a vederlo. Non ne avevo idea, ma sospettavo di sì. Aveva un aspetto normalissimo. Riuscivo a distinguere i bottoni sui suoi polsini bianchi, e il colletto alla base della nuca, là dove i capelli sottili lo coprivano. Riuscivo perfino a distinguere le sue ciglia, che erano sempre state straordinariamente lunghe.
Il barman tornò e posò il mio bicchiere d’acqua, senza guardare Roger. Non ne ero ancora sicuro. Il ragazzo era troppo maleducato perché il suo atteggiamento dimostrasse qualcosa oltre al fatto che mi trovavo a New York.
«Come ci riesci?» chiesi.
«Nello stesso modo in cui ci riesce qualsiasi altro fantasma», rispose. «Sono morto. Ormai sono morto da un’ora e mezzo, e devo parlarti! Non so quanto posso restare qui, non so quando comincerò a... a fare Dio solo sa cosa, ma devi ascoltarmi.»
«Perché?» domandai.
«Non essere così crudele, mi hai ucciso», sussurrò, con aria genuinamente offesa.
«E tu? Che mi dici delle persone che hai assassinato, della madre di Dora? Lei torna mai a chiederti udienza?»
«Oh, lo sapevo. Lo sapevo! Sai di Dora! Dio dei cieli, porta all’inferno la mia anima, ma non permettergli di fare del male a Dora.» Era visibilmente scosso.
«Non dire assurdità! Non le farei mai del male. Eri tu quello che volevo. Ti ho seguito in giro per il mondo. Se non fosse stato per un imprevisto rispetto per Dora, ti avrei ucciso molto prima.»
Il barman era ricomparso. Questo provocò un sorriso estasiato sulle labbra del mio compagno che si rivolse direttamente al giovane.
«Sì, mio caro ragazzo, vediamo, l’ultimo, ma proprio l’ultimo drink a meno che io non mi sbagli di grosso: portami un bourbon. Sono cresciuto nel Sud. Cosa avete? No, sai cosa ti dico, ragazzo? Dammi un Southern Comfort.» La sua risata fu confidenziale, amichevole e delicata.
Il barman si allontanò e Roger posò su di me il suo sguardo furibondo. «Devi ascoltarmi, qualsiasi dannata cosa tu sia, vampiro, demone o diavolo: non m’importa, ma non puoi fare del male a mia figlia.»
«Non ne ho nessuna intenzione. Non le farei mai del male. Vai all’inferno, starai meglio. Buonanotte.»
«Presuntuoso figlio di puttana. Quanti anni pensi che avessi?» Stille di sudore cominciarono a imperlargli il viso. I suoi capelli si agitavano dolcemente nella corrente d’aria che attraversava la stanza.
«Non me ne frega proprio niente! Sei stato un pasto che valeva la pena di attendere», lo provocai.
«Sei davvero sfacciato, non credi?» chiese in tono acido. «Ma non sei affatto superficiale come fingi di essere.»
«Oh, lo pensi davvero? Mettimi alla prova. Potresti scoprirmi ‘simile a un ottone reboante o a un cembalo tintinnante’.»
Questo lo fece esitare.
Fece esitare anche me. Da dove arrivavano quelle parole? Perché mi erano uscite di bocca in quella forma? Non era da me usare quel linguaggio figurato!
Lui stava percependo la mia angoscia, la mia palese incertezza. Mi chiesi come si fosse manifestata: mi ero afflosciato o indebolito un poco come fanno alcuni mortali, oppure semplicemente avevo assunto un’aria perplessa?
Il barman gli portò il drink. Con notevole esitazione, lui cercò di stringere il bicchiere e sollevarlo. Ci riuscì, se lo portò alle labbra e assaggiò il liquore. Era sbalordito, grato e improvvisamente così pieno di paura che per poco non si disintegrò. L’illusione fu sul punto di essere cancellata.
Eppure non si arrese. Era palesemente la persona che avevo appena ucciso, fatto a pezzi e sepolto in giro per Manhattan, perciò guardarlo mi dava la nausea. Capii che una cosa soltanto m’impediva di essere preso dal panico: il fatto che mi stesse parlando. Cosa aveva detto una volta David, quando era ancora vivo, a questo proposito? Che non avrebbe ucciso un vampiro perché il vampiro aveva la capacità di parlargli? E adesso questo dannato fantasma mi stava parlando.
«Devo raccontarti di Dora», spiegò.
«Ti ho già detto che non farò mai del male a Dora o a qualcuno come lei. Cosa ci fai qui con me? Quando sei apparso non sapevi nemmeno che conoscevo Dora! E ora vuoi parlarmi di lei?»
«Profondo, sono stato ucciso da un essere profondo, una vera fortuna, qualcuno che ha realmente apprezzato la mia morte, vero?» Bevve qualche altro sorso del Southern Comfort dal profumo dolce. «Questo era il drink preferito di Janis Joplin, sai», disse, riferendosi alla cantante defunta che anch’io avevo amato. «Senti, voglio che tu mi ascolti, anche solo per pura curiosità, non me ne importa un fico secco, ma ascoltami. Lascia che ti racconti di Dora e di me. Voglio che tu capisca. Voglio che tu capisca davvero chi ero, a prescindere dall’idea che ti sei fatto di me. Voglio che tu ti prenda cura di Dora. E poi c’è qualcosa nell’appartamento, qualcosa che voglio che tu...»
«Il velo di Veronica incorniciato?»
«No! Quello è ciarpame. Certo, risale a quattro secoli fa, ma è una comune copia del velo di Veronica, basta avere abbastanza denaro. Hai frugato in casa mia?»
«Perché volevi dare il velo a Dora?» domandai.
Questo lo calmò. «Ci hai sentito parlare?»
«Parecchie volte.»
Stava facendo congetture, valutando la situazione. Sembrava perfettamente equilibrato, il suo scuro viso orientale che non rivelava nulla se non sincerità e grande cautela.
«Hai detto ‘che tu ti prenda cura di Dora’?» chiesi. «È questo che mi hai chiesto di fare? Badare a lei? Ora questa è un’altra proposta e perché diavolo vuoi raccontarmi la storia della tua vita? Stai esponendo il tuo personale giudizio postumo al tizio sbagliato! Non m’interessa come sei diventato ciò che eri. E infine, gli oggetti nell’appartamento: perché mai un fantasma dovrebbe preoccuparsi di cose simili?»
Non ero del tutto sincero. Mi stavo dimostrando di gran lunga troppo irriverente e lo sapevamo entrambi. Era naturale che si preoccupasse dei suoi tesori. Ma era stata Dora a farlo tornare dal regno dei morti.
Adesso i suoi capelli erano di un nero più intenso, e il cappotto aveva acquistato maggiore consistenza. Riuscivo a distinguere i fili di seta e cashmere intrecciati nel tessuto. Rivedevo le sue unghie, fresche di manicure, ben tagliate e lucide. Le stesse mani che avevo infilato tra i rifiuti! Non credo che tutti questi dettagli fossero stati visibili, pochi istanti prima.
«Cristo santo», mormorai.
Lui scoppiò a ridere. «Sei più spaventato di me.»
«Dove ti trovi?»
«Di cosa stai parlando? Sono seduto accanto a te. Ci troviamo in un bar del Village. Cosa intendi dire chiedendomi dove mi trovo? Quanto al mio corpo, sai bene quanto me dove ne hai gettato i vari pezzi», rispose sprezzante.
«Ecco perché mi stai tormentando.»
«Niente affatto. Non potrebbe fregarmene di meno di quel corpo. La penso così sin dall’istante in cui l’ho lasciato. Lo sai benissimo!»
«No, no, insomma, in che reame ti trovi adesso, che cos’è, dove sei, cosa hai visto quando sei arrivato lì... cosa...?»
Lui scosse il capo con un sorriso tristissimo. «Conosci già le risposte. Non so dove mi trovo, ma qualcosa mi sta aspettando. Ne sono quasi sicuro: qualcosa sta aspettando. Forse è semplicemente la disintegrazione. L’oscurità. Ma sembra piuttosto una questione personale. Quel qualcosa non aspetterà in eterno. Ma non so come faccio a saperlo. E non so perché mi sia permesso di contattarti, se dipenda dalla mera forza di volontà, la mia, voglio dire, che è davvero notevole, o se si tratti invece di una concessione di pochi istanti, non lo so! Tuttavia io ti ho dato la caccia. Ti ho seguito fuori dell’appartamento e poi di nuovo là, e subito dopo mentre giravi per la città col cadavere; sono venuto qui e adesso devo parlarti. Non ho intenzione di andarmene senza lottare, finché non ti avrò parlato.»