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«Giusto?»

«Chiamami per nome. Guardami.»

Lo feci. Fu doloroso. Lui era infelice. Non sapevo se gli esseri umani potessero esprimere un’infelicità altrettanto intensa. Non lo sapevo davvero.

«Mi chiamo Roger», aggiunse. Adesso sembrava ancora più giovane, come se stesse viaggiando con la mente a ritroso nel tempo, oppure stesse semplicemente riacquistando innocenza, come se i morti, nel caso vogliano restare legati alla terra, avesse­ro il diritto di rammentare la propria innocenza.

«So come ti chiami. So tutto di te, Roger. Roger, il fantasma. E non hai mai permesso al vecchio capitano di toccarti; gli hai solo permesso di adorarti, istruirti, portarti in viaggio e comprar­ti splendide cose, e non hai mai avuto nemmeno la decenza di andare a letto con lui.» Dissi tutto ciò basandomi sulle immagini che avevo bevuto insieme col suo sangue, ma senza malizia. Sta­vo parlando solo perché ero stupito di quanto siamo tutti malva­gi, stupito di tutte le menzogne che raccontiamo.

Per il momento lui non replicò.

Io ero annientato. Il dolore mi stava davvero accecando, unito all’amarezza e a un profondo, terribile orrore per ciò che avevo fatto a lui e agli altri, e per aver fatto del male anche a una sola creatura vivente. Orrore.

Qual era il messaggio di Dora? Come avremmo dovuto essere salvati? Si trattava del solito vecchio cantico di adorazione?

Lui mi osservò. Era giovane, motivato, una splendida parven­za di vita. Roger.

«D’accordo, non sono andato a letto col vecchio capitano, hai ragione, ma in realtà lui non ha mai voluto questo da me, sai, non si trattava di questo, lui era di gran lunga troppo vecchio. Non sai come stessero davvero le cose. Puoi anche sapere come mi sento in colpa, ma non sai come mi sono pentito, in seguito, di non averlo fatto. Di non averlo scoperto col vecchio capitano. E non è stato questo a farmi deviare dalla retta via. Niente affat­to. Non si trattò del grande inganno o furto che immagini. Ama­vo le cose che mi mostrava. Lui mi voleva bene. Visse per altri due o tre anni, probabilmente grazie a me. E Wynken de Wilde lo abbiamo amato insieme. Sarebbe dovuta andare diversamen­te. Ero con lui quando è morto, sai. Non ho mai lasciato la sua stanza. Sono leale, quando le persone che amo hanno bisogno di me», spiegò in tono pacato e paziente.

«Sì, sei rimasto anche con tua moglie Terry, vero?» Una vera cattiveria, ma avevo parlato senza riflettere, rivedendo il viso di lei mentre lui le sparava. «Fa’ finta che non l’abbia detto, d’ac­cordo? Mi dispiace. Chi è, in nome di Dio, Wynken de Wilde?» Mi sentivo così infelice. «Santo cielo, mi stai tormentando. E io sono vigliacco nell’animo! Vigliacco. Perché hai pronunciato quello strano nome? Non voglio saperlo. No, non dirmelo... Ne ho abbastanza. Me ne vado. Puoi infestare questo bar fino al giorno del giudizio, se vuoi. Convinci qualche individuo virtuoso a parlare con te.»

«Ascoltami», mi sussurrò. «Tu mi ami. Mi hai scelto. Voglio semplicemente aggiungere i dettagli.»

«Baderò a Dora; in un modo o nell’altro, troverò il modo di aiutarla, farò qualcosa. E mi occuperò di tutte le reliquie, prele­vandole dall’appartamento e portandole in un luogo sicuro per custodirle per Dora, finché lei non si sentirà in grado di accetta­re.»

«Sì!»

«Okay, lasciami andare.»

«Non ti sto trattenendo», disse.

Sì, lo amavo. Volevo guardarlo. Volevo che mi raccontasse tutto, fino all’ultimo dettaglio! Allungai una mano per toccare la sua. Non viva. Non carne umana. Ma comunque dotata di vita­lità. Qualcosa di ardente ed eccitante.

Lui si limitò a sorridere. Poi allungò una mano e serrò le dita sul mio polso destro, avvicinandosi. Sentii una ciocca dei suoi ca­pelli sfiorarmi la fronte, solleticarmi la pelle. Grandi occhi scuri che mi guardavano.

«Ascoltami», ripetè. Alito inodore.

«Sì...»

Prese a parlarmi in tono sommesso, incalzante. Cominciò a raccontarmi la sua storia.

4

«Il vecchio capitano era un contrabbandiere, un collezionista. Ho passato diversi anni con lui. Mia madre mi aveva mandato ad Andover, poi mi aveva riportato a casa, perché non riusciva a vivere senza di me; frequentavo la scuola dei gesuiti e non mi senti­vo a mio agio con nessuno e in nessun posto; forse il vecchio ca­pitano rappresentava la persona ideale. La faccenda di Wynken de Wilde ebbe inizio col vecchio capitano e gli oggetti di anti­quariato che vendeva in giro per il quartiere, solitamente manu­fatti piccoli e maneggevoli. E voglio dirtelo subito: Wynken de Wilde non significa niente, assolutamente niente, se non il mio sogno di un tempo, un piano davvero perverso. Intendo dire che la mia passione di tutta una vita — a parte Dora — è stata Wynken de Wilde. Tuttavia, se dopo questa conversazione, tu non lo tro­verai interessante, nessuno lo farà. A Dora non interessa affat­to.»

«A cosa è legato questo Wynken de Wilde?»

«All’arte, naturalmente. Alla bellezza. A diciassette anni ela­borai il vago progetto di fondare una nuova religione, un culto: libero amore, fare carità ai poveri, non alzare la propria mano contro nessuno... Sai, una specie di comunità amish, dedita però alla fornicazione. Era il 1964, l’epoca dei figli dei fiori, della ma­rijuana, di Bob Dylan che cantava sempre di etica e carità, e io desideravo una nuova Devozione Moderna, in sintonia coi valori sessuali contemporanei. Sai qualcosa di questo movimento reli­gioso?»

«Sì, misticismo popolare, tardo Medioevo, la convinzione che chiunque potesse conoscere Dio.»

«Ah! È incredibile che tu lo sappia.»

«Non dovevi essere necessariamente un prete o un monaco, per riuscirci.»

«Esattamente. Per questo suscitò la gelosia dei monaci, ma quando ero ragazzo la mia concezione di questo fenomeno era resa più eccitante da Wynken che, come ben sapevo, era stato in­fluenzato dal misticismo tedesco e da tutti quei movimenti popolari, Meister Eckhart, eccetera, benché lavorasse nello scriptorium di un monastero e realizzasse ancora a mano libri di pre­ghiere in pergamena e di foggia antiquata. I suoi volumi erano completamente diversi da quelli di chiunque altro. Pensavo che, se fossi riuscito a ritrovarli tutti, sarei stato a cavallo.»

«Perché Wynken? Cosa lo rendeva tanto diverso?»

«Lascia che te lo spieghi a modo mio. Vedi, ecco come suc­cesse. La pensione era in cattivo stato ma elegante, conosci il ge­nere. Mia madre non si sporcava le mani, aveva tre cameriere e un vecchio di colore che si occupavano di tutto; i pensionanti go­devano d’ingenti rendite private, avevano limousine in garage sparsi per il Garden District, tre pasti al giorno, tappeto rosso. Conosci la casa. Fu Henry Howard a progettarla. Stile tardo vit­toriano. Mia madre l’aveva ereditata dalla madre.»

«La conosco, l’ho vista, ti ho visto fermarti lì davanti. Adesso a chi appartiene?»

«Non lo so. Me la sono lasciata sfuggire di mano. Ho rovina­to così tante cose... Ma cerca d’immaginare la scena: sonnolenti pomeriggi estivi, quindici anni appena e mi sentivo solo; il vecchio capitano m’invitava nel suo appartamentino e lì, nel secon­do salotto — aveva preso in affitto i due salottini sul davanti della casa —, viveva in una specie di Paese delle meraviglie fatto di og­getti da collezione, ottone cromato e roba simile...»

«Ho capito.»

«... sul tavolo c’erano questi volumi, volumi medievali! Minu­scoli libri di preghiere medievali. Naturalmente, sapevo ricono­scere un libro di preghiere quando ne vedevo uno, ma non un codice medievale, no; da bambino facevo il chierichetto, sono andato a messa ogni giorno per anni e anni con mia madre, cono­scevo il latino liturgico, com’era richiesto. Allora mi resi subito conto che quei libri erano religiosi e rari, e che il vecchio capita­no avrebbe inevitabilmente finito per venderli.