Ma non era mia intenzione annoiarvi con l’abbigliamento. Al diavolo i vestiti! È solo che mi sentivo così fiero di essere tirato a lucido e pieno di stimolanti contraddizioni; un ritratto gradevole caratterizzato da lunghe ciocche, un abito inappuntabile e un modo regale di abbandonarmi alla balaustra, quasi ostruendo la scalinata.
Si avvicinò subito. Aveva lo stesso odore dell’inverno inoltrato che regnava fuori, dove la gente scivolava sulle strade ghiacciate e la neve si era trasformata in poltiglia nei canaletti di scolo. Il suo viso mostrava il vago scintillio soprannaturale che solo io potevo notare, amare, apprezzare come meritava e, infine, baciare.
Raggiungemmo insieme l’ammezzato rivestito di moquette. Per un attimo, detestai che fosse cinque centimetri più alto di me. Ma ero così felice di vederlo e di averlo vicino!
L’albergo era tiepido, con le luci basse e ampio, un luogo in cui le persone non si fissano reciprocamente.
«Sei venuto. Non pensavo che l’avresti fatto», esordii.
«Certo che sono venuto», rispose in tono di rimprovero, l’elegante accento inglese che proveniva dal giovane viso bruno, causando in me la consueta sensazione di sorpresa. Era un uomo anziano col corpo di un giovanotto, di recente trasformato in vampiro, e da me, uno dei più potenti rappresentanti rimasti della nostra specie.
«Cosa ti aspettavi? Armand mi ha detto che mi stavi chiamando. E anche Maharet», continuò con voce sommessa.
«Ah, questo risponde alla mia prima domanda.» Volevo baciarlo e all’improvviso allungai le braccia, con una certa esitazione e delicatezza in modo che potesse ritrarsi, se lo desiderava. Quando si lasciò stringere, ricambiando il mio calore, provai una felicità che non sperimentavo da mesi. Forse, sin da quando lo avevo lasciato con Louis. Noi tre ci trovavamo in una parte sconosciuta della giungla quando decidemmo di separarci, ed era successo un anno prima.
«La tua prima domanda?» chiese, osservandomi molto attentamente, forse studiandomi, facendo tutto ciò che è nelle facoltà di un vampiro per valutare lo stato d’animo e la condizione mentale del suo creatore, perché un vampiro non può leggere nel pensiero del suo artefice, non più di quanto quest’ultimo possa leggere nella mente del suo novizio.
Ed eccoci qui, oppressi da facoltà soprannaturali, entrambi in piena forma e piuttosto emozionati, incapaci di comunicare se non nel modo più semplice ed efficace: a parole.
«La mia prima domanda sarebbe stata semplicemente: dove sei stato, hai trovato gli altri e hanno cercato di farti del male? Tutte quelle sciocchezze, sai, su come ho infranto le regole quando ti ho creato, eccetera eccetera.»
«Tutte quelle sciocchezze», ripetè lui prendendomi in giro, imitando l’accento francese che ancora conservavo, ormai però abbinato a qualcosa di decisamente americano. «Che sciocchezze.»
«Avanti, andiamo nel bar laggiù a parlare», proposi. «Ovviamente, nessuno ti ha fatto del male. Non ho mai pensato che avrebbero potuto o voluto farlo, o che ne avrebbero avuto il coraggio. Se ti avessi creduto in pericolo, non avrei permesso che te ne andassi alla chetichella per il mondo», precisai.
Lui sorrise, gli occhi castani che, per un istante, riflessero una luce dorata. «Non me l’hai già detto circa venticinque volte, prima che ci separassimo?»
Trovammo posto a un tavolino addossato alla parete; il bar era semipieno, proprio la proporzione giusta. Cosa sembravamo? Una coppia di giovani a caccia di uomini o donne mortali? Non m’interessava.
«Nessuno mi ha fatto del male né ha mostrato il minimo interesse nei miei confronti», spiegò David.
Qualcuno stava suonando il piano, in modo assai raffinato, considerato che ci trovavamo nel bar di un albergo, pensai. Ed era un pezzo di Erik Satie. Che fortuna!
«La cravatta», notò lui chinandosi in avanti, i denti bianchi che brillavano, le zanne completamente nascoste, ovvio. «Questo ammasso di seta che hai al collo non è di Brooks Brothers! Ma guardati! E i mocassini... Santo cielo! Che ti passa per la testa? E di cosa volevi parlarmi?» Proruppe in una fioca risata di scherno.
Il barman proiettò un’ombra possente sul tavolino e mormorò frasi prevedibili che, a causa della mia eccitazione e del frastuono, non riuscii a sentire.
«Qualcosa di caldo. Punch al rum o qualcosa del genere, purché si possa riscaldare», disse David. La cosa non mi stupì.
Annuii e feci un vago gesto a quel tizio indifferente per indicare che volevo lo stesso.
I vampiri ordinano sempre drink caldi. Non hanno nessuna intenzione di berli, ma possono sentirne il tepore e annusarne il profumo, ed è tanto piacevole.
David mi guardò di nuovo. O, meglio, quel corpo familiare che racchiudeva David mi guardò. Per colpa mia, lui sarebbe sempre stato l’uomo anziano che avevo conosciuto e amato, così come quel magnifico involucro di carne rubata che lentamente veniva plasmato dalle sue espressioni, dai suoi modi e dal suo stato d’animo.
Cari lettori, David scambiò il suo corpo umano con un altro prima che io lo trasformassi in un vampiro. Ma smettetela di preoccuparvi, quel fatto non ha niente a che vedere con questa storia.
«Qualcosa ti sta seguendo di nuovo? È questo che mi ha detto Armand. E anche Jesse», affermò.
«Dove li hai visti?»
«Armand? L’ho incontrato per puro caso. A Parigi. Stava camminando per strada. È stato il primo che ho visto.»
«Non ha cercato di farti del male?»
«Perché avrebbe dovuto? Piuttosto, dimmi: perché mi stavi chiamando? Chi ti sta pedinando? Di che si tratta?»
«E sei stato da Maharet.»
Lui si appoggiò allo schienale della sedia. «Lestat, ho esaminato manoscritti che nessun essere umano vede da secoli; ho posato le mani su tavolette d’argilla che...»
«David, lo studioso», lo interruppi. «Educato a essere il perfetto vampiro dal Talamasca, anche se i suoi membri non hanno mai sospettato che un giorno lo saresti diventato davvero.»
«Oh, ma cerca di capire. Maharet mi ha portato là dove conserva i suoi tesori. Cerca d’immaginare cosa significhi stringere tra le mani una tavoletta coperta di simboli che precedono il cuneiforme. E la stessa Maharet: avrei potuto vivere per chissà quanti secoli senza nemmeno intravederla.»
Maharet era davvero l’unica che lui avesse mai avuto motivo di temere. Credo che lo sapessimo entrambi. I miei ricordi di Maharet non racchiudevano alcuna minaccia, solo il mistero di una sopravvissuta di Millennia, un essere vivente così antico che ogni suo gesto sembrava marmo liquefatto e la sua voce sommessa era divenuta il distillato di tutta l’eloquenza umana.
«Se lei ti ha dato la sua benedizione, qualunque altra cosa ha ben poca importanza», risposi con un debole sospiro. Mi chiesi se avrei mai posato di nuovo gli occhi su di lei. Non avevo sperato né desiderato di farlo.
«Ho visto anche la mia cara Jesse», aggiunse David.
«Ah, avrei dovuto immaginarlo.»
«Sono andato a cercarla. L’ho chiamata spostandomi da un luogo all’altro, proprio come tu hai emesso il grido senza parole per convocarmi.»
Jesse. Pallida, ossatura minuta, capelli rossi. Nata nel XX secolo. Molto colta e dotata di notevoli poteri psichici, quand’era ancora un essere umano. David l’aveva conosciuta come umana; ora la conosceva come immortale. Jesse era stata una sua allieva nell’ordine del Talamasca. Adesso lui le era alla pari quanto a bellezza e potere vampireschi, o quasi. Non lo sapevo con esattezza.
Jesse era stata portata da Maharet della Prima Stirpe, colei che era nata come essere umano prima che gli uomini cominciassero a scrivere la loro storia o addirittura intuissero di averne una. Adesso l’Anziana, se davvero ce n’era una, la Regina dei Dannati era Maharet, mentre di sua sorella muta, Mekare, ormai nessuno parlava più.
Non avevo mai visto un novizio creato da un vampiro anziano come Maharet. Quando l’avevo vista l’ultima volta, Jesse mi era sembrata l’involucro trasparente di un’immensa forza. Ormai, doveva avere storie proprie da raccontare, proprie cronache e avventure personali.