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«Sono queste le parole che ha usato Armand, ‘una sfacciata richiesta d’aiuto’? Lo detesto.»

David si limitò a sorridere e a fare un rapido gesto impaziente con le mani. «Non detesti Armand e lo sai.»

«Vuoi scommettere?»

Mi guardò con aria di rimprovero. Roba da scolaretto inglese, probabilmente.

«D’accordo, te lo dico. Ora, prima di tutto devo rammentarti una nostra conversazione. È stato quando eri ancora vivo, quan­do abbiamo parlato per l’ultima volta nella tua casa nelle Cotswolds, sai, quando eri solo un vecchio gentiluomo affascinante che stava morendo nella più cupa disperazione...» esordii.

«Ricordo benissimo. È successo prima che tu andassi nel deserto», rispose in tono paziente.

«No, subito dopo, quando ormai sapevamo che non potevo morire facilmente come pensavo, quando ero tornato ustionato. Tu mi hai curato; poi hai cominciato a parlare di te, della tua vita. Hai accennato a un’esperienza avuta prima della guerra, in un caffè di Parigi. Ricordi? Capisci di cosa sto parlando?»

«Sì. Ti ho raccontato che, da giovane, pensavo di aver avuto una visione.»

«Sì, qualcosa sul momentaneo strapparsi del tessuto della vita che ti permise d’intravedere cose che non avresti dovuto vede­re.»

Lui sorrise. «Sei stato tu a ipotizzarlo, a supporre che il tessu­to si fosse lacerato chissà come e che io avessi guardato casual­mente attraverso lo strappo. All’epoca pensai, e lo penso tuttora, che si fosse trattato di una visione destinata proprio a me. Ma so­no passati cinquant’anni da quel giorno e il mio ricordo dell’inte­ra faccenda è nebuloso.»

«Be’,era prevedibile. In qualità di vampiro, ricorderai vivida­mente tutto ciò che ti succede da questo momento in avanti, ma i dettagli della vita mortale svaniranno piuttosto in fretta, soprat­tutto quelli legati ai sensi, al punto che ti ritroverai a rincorrerli... Che gusto aveva il vino?»

Mi fece cenno di tacere. Lo stavo rattristando. Non era mia intenzione.

Sollevai il mio drink, ne assaporai il profumo. Era una specie di punch tipicamente natalizio. Credo che in Inghilterra lo chia­mino wassail. Posai il bicchiere. Le mie mani e il mio viso erano ancora abbronzati grazie a quell’escursione nel deserto, quel de­bole tentativo di volare fino al sole. Ciò mi aiutava a sembrare un essere umano: che ironia! E rendeva la mia mano leggermente più sensibile al calore.

Un fremito di piacere mi attraversò. Calore! A volte ho l’im­pressione di riuscire a trarre il meglio da qualsiasi cosa. Non c’è modo d’ingannare un edonista come me, qualcuno che può mo­rire dal ridere, per ore, a causa del disegno della moquette nell’a­trio di un albergo.

Mi accorsi di nuovo che David mi stava guardando.

Sembrava aver riacquistato il controllo, in un certo senso, o avermi perdonato per la millesima volta per aver introdotto la sua anima nel corpo di un vampiro senza chiedergli il permesso, anzi contro la sua volontà. Mi fissò, tutt’a un tratto quasi con af­fetto, come se io avessi bisogno di quella rassicurazione. La ac­cettai. Ne avevo davvero bisogno.

«In quel caffè di Parigi sentisti la conversazione di due esseri. Eri giovane. Successe tutto per gradi. Eppure ti rendesti conto subito che quei due non erano davvero lì, non in senso materiale, e che la loro lingua ti risultava comprensibile sebbene ignorassi quale fosse», dissi, ritornando alla sua visione di tanti anni prima. Lui annuì.

«Esatto. Una teofania, e sembravano proprio Dio e il Diavolo intenti a discutere.»

Annuii a mia volta. «E l’anno scorso, quando ti ho lasciato nella giungla, hai detto che non dovevo preoccuparmi, che non avresti intrapreso nessuna ricerca religiosa per trovare Dio e il Diavolo in un caffè di Parigi. Hai detto di aver passato la tua vita mortale cercando simili cose nel Talamasca e che adesso avresti imboccato una direzione diversa.»

«Sì, è questo che ho detto», ammise con accondiscendenza. «Adesso la visione è più nebulosa di quando te la raccontai. Ma la ricordo. La ricordo ancora e sono tuttora convinto di aver visto e sentito qualcosa; e sono rassegnato come sempre a non po­ter scoprire che cosa è successo.»

«Quindi stai lasciando Dio e il Diavolo al Talamasca, come hai promesso.»

«Sto lasciando il Diavolo al Talamasca che, in quanto ordine dedito allo studio del paranormale, non credo sia mai stato mol­to interessato a Dio», precisò.

Tutto ciò rappresentava un terreno di dibattito assai familiare. Ne presi atto. Entrambi tenevamo d’occhio il Talamasca, per co­sì dire. Un solo membro di quel pio ordine di studiosi era riusci­to a scoprire quale fosse stato il vero destino di David Talbot, ex Generale Superiore dell’ordine, e adesso quell’essere umano era morto. Si chiamava Aaron Lightner. David aveva sofferto atrocemente per la perdita dell’unico uomo che sapesse cos’era diven­tato, l’uomo che era stato il suo dotto amico mortale così come David era stato il mio.

Adesso gli premeva di riprendere il filo del discorso. «Hai avuto una visione? È questo che ti spaventa?» chiese.

Scossi il capo. «Niente di così chiaro. Tuttavia la Cosa mi sta pedinando e di tanto in tanto mi lascia intravedere qualcosa per una frazione di secondo. Per lo più la sento; a volte la sento par­lare con altri usando un normalissimo tono discorsivo oppure sento i suoi passi dietro di me per la strada e mi giro di scatto. È vero, ne sono terrorizzato. E, quando si palesa... be’,di solito mi ritrovo disorientato, riverso in un canaletto di scolo come un vol­gare ubriacone. Passa una settimana: niente. Poi capto di nuovo quello stralcio di conversazione...»

«E di che si parla?»

«Non posso citarti i frammenti in ordine logico. Li sentivo prima di rendermi conto di cosa fossero. Da un certo punto di vista, sapevo di stare sentendo la voce di un altro abitante del po­sto, per così dire; capivo che a parlare non era un semplice mor­tale nella stanza accanto. Ma, per quanto ne sapevo, la faccenda avrebbe potuto avere una motivazione semplice, una spiegazio­ne elettronica, per esempio.»

«Capisco.»

«Gli stralci però somigliano al colloquio tra due persone; e una — quella in questione, intendo — dice: ‘Oh, no, lui è perfetto, questo non ha niente a che vedere con la vendetta. Come puoi pensare che io volessi semplicemente vendicarmi?’» M’interrup­pi, stringendomi nelle spalle. «Sì, insomma, si è nel bel mezzo di una conversazione.»

«Sì, e tu hai l’impressione che questa Cosa ti stia permettendo di ascoltarne brevi stralci... così come io pensavo che la visione nel caffè fosse destinata proprio a me», replicò lui.

«Hai centrato il bersaglio. Mi sta tormentando. Un’altra vol­ta, solo due giorni fa, mi trovavo a New Orleans. Stavo spiando la figlia della vittima, Dora. Vive nell’ex convento che ho men­zionato, un vecchio edificio costruito tra il 1880 e il 1890, disabi­tato da anni e sventrato, tanto da somigliare a un castello in rovi­na; e questo scricciolo di ragazza, questa adorabile piccola don­na, ci abita senza paura, da sola. Si aggira per la casa come se fos­se invincibile. Comunque, mi trovavo laggiù ed ero entrato nel cortile di questo fabbricato... sai, è una struttura antica: corpo principale, due lunghe ali, cortile interno.»

«L’istituto di mattoni tipico del tardo XIX secolo.»

«Esatto, e stavo osservando da dietro le finestre l’avanzare di quella ragazzina che, sola soletta, percorreva il corridoio immer­so nel buio. Reggeva una lanterna e canticchiava sommessamen­te uno dei suoi inni: hanno un che di medievale e di moderno in­sieme.»

«Credo che l’espressione giusta sia ‘New Age’», suggerì Da­vid.

«Sì, qualcosa del genere, ma questa ragazza fa parte di un network ecumenico religioso, te l’ho già detto. Il suo programma televisivo è molto convenzionale: credi in Gesù e otterrai la sal­vezza. Lei intende portare la gente in paradiso cantando e bal­lando, soprattutto le donne, a quanto pare, o, almeno, le donne saranno le prime a entrarci.»