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Rimasi in silenzio. Avevo paventato questo momento. Non avevo tentato di descrivere queste esperienze nemmeno a me stesso, ma dovevo continuare. Avevo chiamato David perché mi aiutasse, quindi dovevo dare una spiegazione.

«Eravamo sulla Quinta Avenue; lui — la vittima — si stava diri­gendo in macchina verso i quartieri residenziali e io sapevo più o meno da che parte sarebbe andato, cioè verso l’appartamento se­greto dove conserva i suoi tesori. Stavo camminando, in stile umano. Mi fermai davanti a un albergo ed entrai per ammirare i fiori. Sai, in questi hotel puoi sempre trovare dei fiori; quando credi di essere sul punto d’impazzire per colpa dell’inverno, en­tri in questi posti e trovi ricchi bouquet realizzati coi gigli più straordinari.»

«Sì, lo so», convenne lui con un sospiro svogliato.

«Mi trovavo nell’atrio. Stavo osservando un enorme bouquet. Volevo... ah... lasciare una specie di offerta, come se mi fossi tro­vato in una chiesa... per chi l’aveva confezionato, qualcosa del genere, e stavo pensando che forse avrei dovuto uccidere la vitti­ma, e poi... Ti giuro che è andata davvero così, David... Il pavi­mento è scomparso. L’albergo è scomparso. Non mi trovavo da nessuna parte né ancorato ad alcunché, eppure ero circondato di gente, gente che urlava, chiacchierava, gridava, piangeva e ride­va, sì, rideva davvero, e tutto ciò stava succedendo simultanea­mente, e la luce, David, la luce era accecante. Quella non era l’o­scurità, non erano le stereotipate fiamme dell’inferno, e io mi protesi in avanti. Non allungai le braccia, perché non riuscivo a trovarle; allungai tutto, ogni arto, ogni fibra, cercando di toccare qualcosa, di riacquistare l’equilibrio, poi mi resi conto di essere in piedi sulla terraferma e mi trovai davanti questo Essere, la sua ombra che cadeva su di me. Senti, non ho parole per descriverlo. Era orribile. Era di certo la cosa più orrenda che avessi mai vi­sto! La luce brillava dietro di lui. Aveva un viso scuro, scurissimo, e mentre lo guardavo persi completamente il controllo. De­vo aver urlato. Eppure non so se, nel mondo reale, emisi qualche suono. Quando ripresi i sensi, mi trovavo ancora lì, nella hall. Sembrava tutto normale ed era come se fossi rimasto nell’altro posto per anni e anni; brandelli di ricordi di ogni genere stavano scivolando via da me, volando via, così in fretta che non potevo afferrare nessun singolo pensiero, frase compiuta o suggestione. Tutto quello che riuscivo a rammentare con sicurezza è ciò che ti ho appena raccontato. Ero lì in piedi. Guardai i fiori. Nessuno, nell’atrio, mi aveva notato. Finsi che fosse tutto normale, però non smisi di cercare di ricordare, d’inseguire questi brandelli, as­sediato da stralci di conversazione. E ancora mi vedevo davanti molto nitidamente questo Essere così orrendo e scuro, il tipo di demone che inventeresti se volessi far impazzire qualcuno. Con­tinuavo a vedere questo volto e...»

«Sì?»

«...e l’ho rivisto altre due volte.» Mi accorsi che mi stavo tamponando la fronte col tovagliolino di carta che mi aveva dato il cameriere. Lui era tornato. David fece un’altra ordinazione, poi si chinò verso di me.

«Pensi di aver visto il Diavolo.»

«Non esistono molte altre cose che possano spaventarmi, David. Lo sappiamo entrambi. Non esiste un vampiro capace d’in­cutermi davvero paura. Non il più anziano, né il più saggio, o il più crudele. Nemmeno Maharet. E cosa so degli esseri sovranna­turali che non sono vampiri? Gli spettri, i Poltergeist, gli spiritelli sciocchi che noi tutti conosciamo e vediamo... le cose che evoca­vi con la stregoneria del Candomblé», affermai.

«Sì», disse.

«Questo era L’Uomo Stesso, David.»

Lui sorrise, ma in modo non privo di gentilezza o compren­sione. «Per te, Lestat, per te doveva trattarsi per forza del Dia­volo in persona», dichiarò in tono seducente, prendendomi in giro.

Scoppiammo a ridere. Ma credo sia stata quella che gli scrit­tori definiscono una risata priva di allegria. Ripresi a raccontare.

«La seconda volta accadde a New Orleans. Mi trovavo vicino a casa, al nostro appartamento di rue Royale. Stavo passeggian­do. E cominciai a sentire quei passi dietro di me, come se qualco­sa mi stesse seguendo e volesse farmelo sapere. Dannazione, io stesso ho usato questa tecnica coi mortali ed è così crudele. Dio! Perché sono stato creato? E poi, la terza volta, la Cosa si avvicinò ancora di più. Stesso scenario. Enorme, svettava sopra di me. Ali, David. Ha le ali oppure io, nella mia paura, la sto dotando di ali. È un essere alato ed è orribile, e l’ultima volta trattenni l’im­magine abbastanza a lungo per fuggirne, per scappare, David, come un codardo. E poi mi svegliai, come le altre volte, in un luogo familiare, quello da cui ero partito, in realtà, e tutto era identico a prima, nulla era mutato.»

«E quando appare in questo modo ti parla?»

«No. Sta cercando di farmi impazzire. Sta cercando di... di farmi fare qualcosa, forse. Ricorda quello che hai detto sul fatto d’ignorare perché Dio e il Diavolo ti avessero permesso di veder­li.»

«Non hai mai pensato che sia legato a questa vittima che stai seguendo? Che forse qualcosa o qualcuno non vuole che tu ucci­da quest’uomo?»

«È assurdo, David. Pensa alle sofferenze di stanotte nel mon­do. Pensa a quanti stanno morendo nell’Europa orientale, pensa alle guerre in Terra Santa, pensa a cosa sta succedendo in questa stessa città. Credi che a Dio o al Diavolo importi un fico secco di un unico uomo? E la nostra razza di vampiri, la nostra specie che si ciba da secoli dei deboli, degli avvenenti e degli sfortunati. Quando mai il Diavolo ha interferito nelle attività di Louis, Armand, Marius o di chiunque altro di noi? Oh, magari fosse così facile evocare la sua augusta presenza e sapere una volta per tut­te!»

«Lo vuoi sapere?» chiese energicamente.

Indugiai, riflettendo. Scossi il capo. «Potrebbe essere qualco­sa di perfettamente spiegabile. Detesto esserne terrorizzato! For­se questa è la follia. Forse è in questo che consiste l’inferno. Impazzisci. E tutti i tuoi demoni vengono a prenderti con la stessa rapidità con cui li inventi.»

«Lestat, è il male, è questo che vuoi dire?»

Feci per rispondere, poi mi bloccai. Il male.

«Lo hai definito orrendo; hai descritto un frastuono insop­portabile e una luce. Era il male? Hai captato la presenza del ma­le?»

«Be’,in realtà, no. Ho captato esattamente quello che perce­pisco quando sento quegli stralci di conversazione, una sorta di sincerità, credo sia questo il termine adatto, sincerità e motiva­zione, e voglio dirti una cosa, David, su questo Essere che mi sta pedinando: ha una mente insonne nel cuore e un’indole insazia­bile.»

«Cosa?»

«Una mente insonne nel cuore e un’indole insaziabile», insi­stetti. Mi era sfuggito di bocca. Sapevo che era una citazione; sta­vo citando qualcosa, ma non sapevo cosa, forse il verso di una poesia?

«Cosa intendi dire?» mi chiese lui pazientemente.

«Non lo so. Non so nemmeno perché l’ho detto. Non so neanche come mai mi siano venute in mente queste parole. Ma è vero. Lui ha una mente insonne nel cuore e un’indole insaziabile. Non è mortale. Non è umano.»

«‘Una mente insonne nel cuore e un’indole insaziabile’», citò David.

«Sì. Ecco com’è L’Uomo, l’Essere, la Cosa maschile. No, aspetta, ferma, non so se è un maschio; voglio dire... insomma, non so di che sesso sia... non è distintamente femminile, mettia­mola così, e, non essendo distintamente femminile, sembra... maschile.»

«Capisco.»

«Credi che io sia pazzo, vero? Lo speri?»

«Certo che no.»

«Dovresti», ribattei. «Perché se questo Essere non esiste al­l’interno della mia testa ma all’esterno, allora può prendere an­che te.»