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Dopo un attimo di riflessione, David rispose in tono eloquen­te: «Capisco benissimo».

«No, non capisci. La amo, sì, ma ben presto la dimenticherò. È solo che... be’,lì ci sono una convincente versione di qualcosa e una spiccata delicatezza, e lei ci crede davvero; pensa che Gesù abbia camminato su questa terra. Pensa che sia davvero succes­so.»

«E questa Cosa che ti sta seguendo non è collegata in alcun modo alla vittima che hai scelto, suo padre?»

«Be’,c’è un modo per scoprirlo», dissi.

«Quale?»

«Uccidere quel figlio di puttana stanotte. Forse lo farò dopo che si separa dalla ragazza. La mia vittima non rimarrà qui con lei, perché ha troppa paura di metterla in pericolo; non alloggia mai nello stesso albergo della figlia. Ha tre diversi appartamenti qui. Mi stupisce che si sia fermato così a lungo.»

«Rimango con te.»

«No, va’ pure, devo concludere questa faccenda. Ho bisogno di te, ho davvero bisogno di te. Dovevo raccontartelo e dovevo averti vicino — gli antichi e venerandi bisogni umani —, ma non mi serve averti accanto. So che sei assetato, non mi occorre leg­gerti nel pensiero per capirlo. Hai patito la fame mentre venivi qui, per non deludermi. Va’ a perlustrare la città. Non hai mai cacciato a New York, vero?» Sorrisi.

Fece cenno di no col capo. I suoi occhi stavano cambiando. Dipendeva dalla fame: gli stava conferendo quello sguardo vitreo, tipico di un cane che abbia percepito l’odore penetrante di una femmina in calore. Assumiamo tutti quello sguardo, lo sguardo bestiale, ma non siamo affatto buoni come gli animali, vero? Nessuno di noi lo è.

Mi alzai. «Le stanze all’Olympic Tower, fa’ in modo che si affaccino su San Patrizio, d’accordo? Non su un piano troppo al­to, anzi possibilmente basso, in modo che i campanili siano vici­ni», dissi.

«Hai perso la testa, la tua brillante testa sovrannaturale.»

«No. Ma adesso esco tra la neve. Lo sento lassù. Ha in pro­gramma di lasciare la figlia, la sta baciando, baci casti e amorevo­li. La sua macchina sta girando in tondo qui fuori. Lui si dirigerà verso i quartieri residenziali, raggiungendo l’appartamento se­greto dove conserva le reliquie. Pensa che i suoi nemici nel mon­do del crimine e nel governo non ne sappiano nulla oppure lo ri­tengano semplicemente il negozio da rigattiere di un amico; ma io ne sono al corrente e so cosa significano per lui tutti quei teso­ri. Se va là, lo seguirò... Non c’è più tempo, David.»

«Non sono mai stato così confuso», confessò. «Stavo per dir­ti: ‘Che Dio ti accompagni’.»

Scoppiai a ridere. Mi piegai per baciarlo sulla fronte, in modo così repentino che gli altri non ci avrebbero fatto caso se lo aves­sero notato, e poi, inghiottendo la paura, la paura immediata, lo lasciai.

Nelle stanze ai piani superiori Dora piangeva. Era seduta ac­canto alla finestra a osservare la neve e a piangere. Si era pentita di aver rifiutato il nuovo regalo del padre. Se soltanto... Premette la fronte contro il vetro gelido e pregò per lui.

Attraversai la strada. Trovai gradevole la neve, ma, in fin dei conti, sono un mostro. Rimasi fermo sul retro della chiesa di San Patrizio, stando a osservare mentre la mia bella vittima usciva, calpestava in fretta la neve, le spalle curve, e si sistemava sul sedi­le posteriore di una costosa auto nera. Lo sentii dare all’autista un indirizzo vicinissimo all’appartamento-negozio da rigattiere in cui conservava i suoi tesori. Benissimo, per un po’ sarebbe ri­masto lassù da solo. Perché non farlo, Lestat?

Perché non lasciare che il Diavolo ti prenda? Procedi! Rifiu­tati di entrare all’inferno in preda alla paura. Va’ all’attacco.

2

Raggiunsi prima di lui la sua abitazione nell’Upper East Side. Lo avevo seguito fin là parecchie volte e conoscevo la disposizio­ne dell’edificio: al pianterreno e al secondo piano vivevano degli affittuari, anche se dubito che conoscessero l’identità del pro­prietario. Non era molto diverso dalla consueta sistemazione di un vampiro. E tra questi due appartamenti c’era la sua lunga ca­tena di stanze che costituivano il primo piano della casa di città, protetta da sbarre come una prigione e cui lui accedeva tramite un ingresso posteriore.

Non si faceva mai lasciare dall’auto davanti all’edificio. Scen­deva sulla Madison e si addentrava nell’isolato raggiungendo la porta sul retro oppure, talvolta, smontava sulla Quinta Avenue. Poteva scegliere tra due itinerari diversi e alcuni dei fabbricati circostanti erano di sua proprietà. Ma nessuno — nessuno dei suoi inseguitori — sapeva di quel posto.

Non ero nemmeno sicuro che sua figlia, Dora, ne conoscesse l’esatta ubicazione. Non l’aveva mai portata là durante tutti i me­si in cui lo avevo tenuto d’occhio, pregustando il piacere e lec­candomi le labbra nel pensare alla sua vita. E nella mente di Dora non avevo mai captato una chiara immagine dell’appartamento.

Lei però sapeva della collezione paterna. In passato aveva ac­cettato le sue reliquie. Alcune erano disseminate nell’enorme convento vuoto di New Orleans. Avevo percepito lo scintillio di quegli oggetti pregiati, la sera in cui l’avevo seguita fin là. E ades­so la mia vittima stava ancora deplorando che lei avesse rifiutato il dono più recente. Qualcosa di davvero sacro, o almeno così pensava lui.

Entrai in casa senza troppi problemi.

Difficilmente lo si poteva definire un appartamento, benché includesse un angusto gabinetto — sporco come diventano spor­chi i vani spogli e non usati — e una stanza dopo l’altra stipate di bauli, statue, figurine in bronzo, cumuli di apparente ciarpame che sicuramente celavano scoperte d’inestimabile valore.

Mi dava una sensazione stranissima trovarmi all’interno, nascosto nella stanzetta sul retro, perché mi ero sempre limitato a guardare dentro dalle finestre. Faceva freddo. Al suo arrivo l’uo­mo avrebbe creato tepore e luce con estrema facilità.

Percepii che si trovava soltanto a metà della Madison, imbot­tigliato nel traffico, e cominciai a esplorare la casa.

Fui subito spaventato da un’enorme statua di marmo che rap­presentava un angelo; uscendo da una porta, svoltai e per poco non le finii addosso. Era uno di quegli angeli che un tempo si trovavano sempre accanto ai portali delle chiese, a offrire l’acqua santa in bacili a forma di conchiglia. Li avevo visti in Europa e a New Orleans. Era gigantesco e il suo profilo crudele scrutava ciecamente le ombre. Molto oltre, lungo il corridoio, saliva la lu­ce dall’animata stradina che sfociava sulla Quinta. I consueti «canti» del traffico newyorkese filtravano dalle pareti.

Questo angelo era in equilibrio come se fosse appena sceso dai cieli per offrire il suo sacro bacile. Gli allungai uno schiaffetto sul ginocchio piegato e gli girai intorno. Non mi piaceva. Sentivo odore di pergamena, di papiro e di diversi tipi di metallo. La stanza di fronte sembrava zeppa di icone russe. Le pareti ne era­no interamente ricoperte e la luce giocava sulle aureole di Vergi­ni dagli occhi tristi o su Cristi dallo sguardo torvo.

Entrai in quella successiva. Crocifissi. Riconobbi lo stile spa­gnolo, quello che sembrava un barocco italiano e opere molto antiche che dovevano essere estremamente rare; il Cristo grotte­sco e dalle proporzioni imperfette, che comunque soffriva con debito orrore sulla croce divorata dai vermi.

Solo allora mi resi conto di ciò che appariva ovvio. Era tutta arte religiosa. Non c’era niente che non fosse religioso. Ma, a ben pensarci, si potrebbe dire altrettanto di tutte le opere d’arte crea­te sino alla fine del secolo scorso. Voglio dire che la stragrande maggioranza dell’arte è di carattere religioso.

Il posto era completamente privo di vita. Puzzava d’insettici­da, che lui aveva spruzzato a profusione per salvare le antiche statue lignee: non avrebbe potuto fare altrimenti. Non riuscii a sentire il rumore o l’odore dei topi né a percepire la presenza di creature viventi. L’appartamento sottostante era deserto, anche se in un bagno una radiolina gracchiava il notiziario. Facile escludere quel suono fioco. Al piano superiore c’erano dei mor­tali ma si trattava di vecchi, e captai la visione di un uomo seden­tario, con degli auricolari, che si dondolava al ritmo di un’esote­rica musica tedesca, Wagner, amanti condannati che lamentava­no l’«odiata alba» o qualche sciocchezza opprimente, ripetitiva e distintamente pagana. Al diavolo il leitmotiv. C’era un’altra persona lassù, una donna, ma era troppo debole per preoccupar­mi; riuscivo a percepirne solo un’immagine: stava cucendo o la­vorando a maglia.