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«Voglio vederlo.»

«Ti avviso, è l’inferno.»

«Sto giusto cominciando a immaginarlo...»

«Non esisterà in eterno, arriverà il giorno in cui il mondo stesso verrà demolito dagli adoratori umani di Dio oppure il giorno in cui tutti coloro che muoiono saranno illuminati e si ar­renderanno a Lui, e finiranno dritti tra le sue braccia. Un mondo perfetto o un mondo distrutto, l’uno o l’altro: un giorno giun­gerà la fine dell’inferno. E io tornerò in paradiso, pago di restare là per la prima volta in tutta la mia esistenza, da quando il tempo ha avuto inizio.»

«Portami con te all’inferno, ti prego. Voglio vederlo subito.»

Allungò una mano per accarezzarmi i capelli, poi mi strinse il viso tra le mani. Erano tiepide e amorevoli. Fui invaso da un sen­so di tranquillità.

«Così tante volte in passato ho quasi ottenuto la tua anima! La vedevo quasi staccarsi dal tuo corpo, e poi la forte carne so­vrannaturale, il cervello sovrannaturale, il coraggio dell’eroe, te­nevano insieme l’intero mostro, e l’anima tremolava e sfavillava all’interno, fuori della mia portata. E adesso, adesso, rischio di scagliarti là dentro prima che tu abbia bisogno di andarci, quan­do puoi scegliere di andare o venire; e nutro la speranza che tu riesca a sopportare ciò che vedrai e sentirai, per poi tornare e re­stare con me ad aiutarmi.»

«C’è mai stato un tempo in cui la mia anima sarebbe salita in paradiso, oltrepassando te, oltrepassando la tromba d’aria?»

«Cosa ne pensi?»

«Ricordo... una volta, quando ero vivo...»

«Sì?»

«Un momento magico, mentre stavo bevendo e chiacchieran­do col mio grande amico, Nicolas, e ci trovavamo in una locanda del mio villaggio in Francia. E arrivò questo momento magico, in cui tutto sembrò tollerabile e splendido, indipendentemente da qualunque orrore potesse essere commesso o fosse mai stato commesso. Solo un istante, un istante ebbro. Una volta l’ho de­scritto in un libro; ho cercato di rievocarlo. Fu un momento in cui avrei potuto perdonare tutto e dare tutto, e in cui forse non esistevo nemmeno; in cui tutto ciò che vedevo era al di là di me, al di fuori di me. Non lo so. Forse, se la morte fosse giunta in quel momento...»

«Invece giunse la paura, quando ti rendesti conto che, anche se fossi morto, forse non avresti capito tutto, che forse non c’era nulla...»

«... sì. E adesso ho paura di una cosa addirittura peggiore. Ho paura che ci sia qualcosa, certo, ma che questo qualcosa possa ri­velarsi peggiore del nulla.»

«Hai ragione di pensarlo. Non è necessario usare granché uno schiacchiapollici o i chiodi o il fuoco per indurre uomini e donne a desiderare l’oblio. Non granché, davvero. Immagina, desiderare di non essere mai vissuti.»

«Conosco il concetto. Temo di provara ancora quella sensa­zione.»

«Sei saggio a temerlo, ma non sei mai stato così pronto per ciò che devo rivelarti.»

21

Il vento spazzava il campo sassoso, la grande forza centrifuga che si dissolveva e lasciava finalmente andare le anime che si sforzavano di liberarsene, e a quel punto assumevano una distin­ta forma umana e bussavano alle porte dell’inferno oppure vaga­vano lungo i muri troppo alti, tra il guizzare di fuochi, proten­dendosi verso le altre e implorandole.

Tutte le voci erano sovrastate dall’urlo del vento. Anime dalla forma umana combattevano e lottavano, altre vagavano come in cerca di un oggetto smarrito e poi sollevavano le braccia e lasciavano che la tromba d’aria le inglobasse di nuovo.

La forma di una donna, magra e pallida, si protese per raduna­re un gregge errante e piangente di anime giovanissime, alcune non ancora abbastanza grandi da sapersi reggere sulle gambe. Gli spiriti dei bambini si allontanarono, piangendo pietosamente.

Ci avvicinammo alle porte dell’inferno, stretti archi decorati che svettavano, neri e pregiati, come onice lavorata da artigiani medievali. L’aria risuonava di lamenti sommessi e pianti. Ovunque mani spettrali si allungavano per afferrarci; i sussurri ci rico­prirono come le mosche sul campo di battaglia. Alcuni spiriti mi tirarono per i capelli, per la giacca.

Aiutaci, facci entrare, dannazione a te, ti maledico, maledetto, riportami indietro, liberami, ti maledico in eterno, che tu sia dan­nato, aiutami, aiuto... Un boato crescente di ignominia.

Lottai per aprirmi un varco e poter vedere qualcosa. Visi gen­tili andavano alla deriva di fronte a me, bocche che emettevano caldi e dolenti rantoli contro la mia pelle.

Le porte erano dei semplici ingressi senza consistenza solida.

E subito oltre erano fermi i morti servizievoli, in apparenza più consistenti, solo più vividamente colorati e distinguibili, ma comunque diafani, che convocavano con un cenno le anime smarrite, chiamandole per nome, urlando al di sopra del vento impetuoso che dovevano trovare il modo di entrare, che quella non era la perdizione.

Molte torce venivano tenute ben alte; alcune lampade ardevano in cima alle mura. Il cielo era lacerato da saette e dalla grande pioggia mistica di scintille che uscivano da cannoni, sia moderni sia antichi. L’odore di polvere da sparo e sangue impregnava l’a­ria. Ancora e ancora le luci sfavillarono come in una magica esi­bizione mirante ad affascinare un’antica corte cinese, e poi l’oscurità regnò di nuovo, tenue, priva di sostanza e fredda tutt’intorno a noi.

«Entrate», cantavano i morti servizievoli, i fantasmi ben for­mati e ben proporzionati... fantasmi determinati com’era stato quello di Roger, con costumi di ogni epoca e nazione, uomini e donne, bambini, vecchi, nessun corpo opaco e nemmeno debo­le, tutti che ci oltrepassavano per raggiungere la vallata alle no­stre spalle, cercando di aiutare coloro che lottavano, che impre­cavano, che sprofondavano. I morti servizievoli dell’India coi sa­ri di seta, quelli dell’Egitto con le tuniche di cotone, quelli di re­gni da tempo scomparsi che avevano lasciato in eredità magnifici indumenti di corte ornati di pietre preziose; costumi di tutto il mondo, i capi di vestiario piumati che definiamo selvaggi, le to­nache scure dei preti, esempi della concezione di sé di ogni na­zione del mondo, dalla più rozza alla più sontuosa.

Mi aggrappai a Memnoch. Era bellissima oppure orrenda, questa folla di persone provenienti da tutte le nazioni e da ogni epoca? I nudi, i neri, i bianchi, gli asiatici, quelli di altre razze, che uscivano, muovendosi con sicurezza tra le anime smarrite e confuse.

Il terreno mi feriva i piedi; marna annerita e sassosa dissemi­nata di conchiglie. Perché tutto ciò? Perché?

In ogni direzione, pendii salivano o declinavano dolcemente, raggiungendo falesie che svettavano più indietro o si spalancava­no in voragini così profonde e piene di fumosa oscurità sempre più tenue che sembravano l’abisso stesso.

C’erano soglie che guizzavano e lampeggiavano di luce, scali­nate che si attoreigliavano vertiginosamente su e giù lungo le nu­de e ripide pareti, portando verso luoghi invisibili, verso valli che potevo solo intravedere o verso impetuosi ruscelli dorati, fuman­ti e arrossati dal sangue.

«Memnoch, aiutami!» sussurrai. Non osavo lasciar andare il velo e quindi non potevo tapparmi entrambe le orecchie. Le urla stavano scalfendo la mia anima come se fossero asce capaci di staccarne dei pezzi. «Memnoch, è insopportabile!»

«Tutti noi ti aiuteremo», gridarono i fantasmi servizievoli, un capannello che mi circondava per baciarmi e abbracciarmi, i loro occhi sgranati per la preoccupazione. «Lestat è venuto. Lestat è qui. Memnoch lo ha riportato indietro. Entra all’inferno.»

Voci che si alzavano, si abbassavano e si sovrapponevano, co­me se una moltitudine recitasse il rosario, ognuno iniziando da un punto diverso, le voci diventate ormai una salmodia.

«Ti amiamo.»

«Non temere. Abbiamo bisogno di te.»