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«Resta con noi.»

«Abbrevia il nostro tempo.»

Sentii il loro tocco gentile, dolce e rassicurante persino men­tre la luce livida mi terrorizzava, le esplosioni sfavillavano nel cielo e l’odore del fumo mi aggrediva le narici.

«Memnoch!» Mi aggrappai alla sua mano annerita che mi ti­rava, il suo profilo distante, gli occhi che sembravano esaminare con severità il suo regno.

E sotto di noi, poiché la montagna era divisa in due, si stende­vano pianure illimitate, coperte da defunti erranti e impegnati a discutere, da spiriti piangenti, smarriti, intenti a cercare e spa­ventati, da coloro che venivano guidati, radunati e consolati dai fantasmi servizievoli, e da altri che correvano a perdifiato come se potessero fuggire, solo per ritrovarsi a piombare tra le moltitu­dini di spiriti, in cerchi disperati.

Da dove arrivava questa luce infernale, questa illumuiazione magnifica e spietata? Piogge di scintille, improvvise esplosioni di rosso ardente, fiamme, comete che descrivevano archi sopra i picchi.

Si levarono delle urla, riecheggiando sulle scogliere. Alcune anime gemevano e cantavano. I morti servizievoli corsero ad aiu­tare a rialzarsi quanti erano caduti, a fare strada a quelli che avrebbero finalmente raggiunto questa o quella scalinata, porta, ingresso di caverna o sentiero.

«Lo maledico, lo maledico, lo maledico!» Il grido riecheggiò sulle montagne e nelle vallate.

«Nessuna giustizia, dopo ciò che è stato fatto!»

«Non puoi dirmi...»

«... qualcuno deve raddrizzare il torto...»

«Vieni, ti tengo per mano», mi disse Memnoch, e s’incam­minò, la stessa espressione severa sul viso mentre mi guidava con rapidità giù per una scalinata echeggiante, ripida, stretta, che si snodava lungo la scogliera.

«Non riesco a sopportarlo!» gridai, ma la mia voce venne portata via dal vento. La mia mano destra s’infilò di nuovo sotto i vestiti per tastare il velo, e poi si allungò verso la parete di roccia bucherellata e cadente. Quelli erano intagli nella roccia? Quelli erano i punti in cui altre mani avevano tentato di aggrapparsi o arrampicarsi? Le urla e i lamenti mi ottenebrarono la mente. Avevamo raggiunto un’ennesima vallata.

Oppure era un mondo, di per sé vasto e complesso come il paradiso? Perché c’era una miriade di palazzi, torri e archi come prima, in varie sfumature di marrone cupo, terra di siena brucia­ta, ocra e oro brunito se non annerito, e stanze piene di spiriti provenienti da ogni tempo e ogni nazione, impegnati a discutere, conversare, lottare o addirittura cantare; alcuni che si abbraccia­vano come amici appena ritrovati nel bel mezzo di una sventura, soldati in uniforme di guerre antiche e guerre moderne, donne avvolte negli informi drappi neri della Terra Santa, le anime del mondo moderno coi loro vestiti fatti a macchina, adesso ricoper­ti di polvere e fuliggine, tanto che tutto ciò che sfavillava lo face­va in modo tenue, come se nessun colore potesse brillare nella sua gloria più fulgida. Piangevano e si davano colpetti sul viso, e altri scuotevano il capo mentre gridavano la loro ira, le mani strette a pugno.

Anime con cenciosi sai monacali di ruvido tessuto marrone, suore coi rigidi soggoli bianchi ancora intatti, principi con mani­che a sbuffo di velluto, uomini nudi che camminavano come se non avessero mai conosciuto i vestiti, abiti di cotonina e pizzo antico, di moderne sete sfavillanti e lucidi tessuti artificiali e pe­santi giacche militari verde oliva, o armature d’acciaio lucido, vesti da contadino di stoffa rozza, o eleganti completi in lana fatti a mano e di taglio moderno, abiti da sera color argento; capelli di ogni colore, arruffati dal vento; visi di ogni colore; i vecchi ingi­nocchiati a mani giunte, teste calve rosa e rugose appena sopra il collo; e le sottili e bianche anime corporee di coloro che avevano sofferto la fame in vita bevevano l’acqua dei ruscelli come po­trebbero fare i cani, direttamente con la bocca, e altri erano ap­poggiati con gli occhi semichiusi alle rocce e agli alberi contorti, cantando, sognando e pregando.

I miei occhi si abituarono sempre più all’oscurità. Dettagli via via più precisi si delineavano nel mio campo visivo, una maggio­re comprensione rischiarava ogni centimetro o metro quadrato di ciò che osservavo! Perché, intorno a ogni anima, una dozzina di figure intente a ballare o cantare o gemere non erano altro che immagini proiettate da quell’anima e per quell’anima, in modo che potesse comunicare con loro.

L’orrenda figura di una donna divorata dalle fiamme non era altro che una chimera per le anime che, ululanti, si gettavano nel fuoco, nel tentativo di staccarla dal palo del rogo, di spegnere le fiamme che le divoravano i capelli, di salvarla dalla sua indicibile sofferenza! Era il luogo delle streghe! Stavano tutte bruciando! Salvatele! Oddio, i suoi capelli hanno preso fuoco!

In realtà, i soldati intenti a caricare i cannoni e a tapparsi le orecchie mentre facevano fuoco erano solo un’illusione per quel­le autentiche legioni che piangevano inginocchiate, e la sagoma di un gigante che brandiva un’ascia era solo un fantasma per quanti lo fissavano, divisi fra comprensione e confusione, veden­do se stessi in lui.

«Non posso... non posso guardare!»

Spaventose immagini di torture e omicidi lampeggiarono da­vanti ai miei occhi, così ardenti da ustionarmi il viso. Fantasmi venivano trascinati a morire in calderoni di pece bollente, soldati crollavano in ginocchio con gli occhi spalancati, il principe di un regno persiano ormai perduto gridava e faceva salti in aria, le braccia allargate, gli occhi neri riempiti dal fuoco riflesso.

I lamenti e i sussurri acquisirono l’urgenza della protesta, del­la domanda e della scoperta. Tutt’intorno c’erano voci discernibili, se soltanto si avesse avuto il coraggio di udirle, d’isolare i te­mi sottili come fil di ferro dall’impetuoso canto funebre.

«Sì, sì, e pensavo, e sapevo...»

«... miei cari, miei piccoli...»

«... tra le tue braccia, perché non hai mai...»

«... e per tutto il tempo ho riflettuto e tu...»

«Ti amo, ti amo, ti amo, sì, e sempre... e no, non lo sapevi. Non lo sapevi, non lo sapevi.»

«... e ho sempre pensato che fosse ciò che avrei dovuto fare, ma sapevo, sentivo...»

«... il coraggio di voltarsi e dire che non si trattava...»

«Non lo sapevamo! Non lo sapevamo!»

Alla fine tutto si fuse in un unico grido incessante.

Non lo sapevamo!

Davanti a me svettava il muro di una moschea, sormontato da coloro che urlavano e si riparavano la testa mentre l’intonaco ca­deva sopra di loro, il boato dell’artiglieria assordante. Tutti fan­tasmi.

«Non lo sapevamo! Non lo sapevamo!» gemevano le voci delle anime. I morti servizievoli si riunirono, in ginocchio, le guance rigate di lacrime... «Sì, capiamo, capite.»

«E quell’anno, il semplice fatto di tornare a casa e stare con...»

«Sì...»

Caddi in avanti, il mio piede che colpiva un sasso e mi cata­pultava nel bel mezzo di una frotta di soldati messi carponi, piangenti, mentre artigliavano i compagni e gli spettrali fantasmi dei conquistati, degli uccisi, di quanti erano morti d’inedia; tutti che si dondolavano e piangevano insieme con un’unica voce.

Ci fu una serie di esplosioni, ognuna più violenta della prece­dente, come quelle che solo il mondo moderno può produrre. Il cielo era luminoso come se fosse giorno e se il giorno stesso potesse essere incolore e spietato per poi dissolversi in una guizzan­te oscurità.

Oscurità visibile.

«Aiutatemi, aiutatemi a uscire di qui», gridai, ma loro parve­ro non sentire o notare le mie urla, e, quando cercai Memnoch, vidi solo la doppia porta di un ascensore spalancarsi all’improv­viso, e davanti a me si stagliò un’enorme stanza moderna piena di elaborati lampadari a bracci e pavimenti ben lucidati e tappeti sconfinati. Il duro, lucido scintillio del nostro mondo creato dal­le macchine. Roger corse verso di me.