Gli occhi di Teresa erano fissi sulla cartina. — Abbiamo bisogno di un permesso per entrare — disse in tono contrito.
— Per entrare! Se andate a Pau Seco avrete bisogno di un permesso per mangiare, per dormire e anche per pisciare…
— Potete procurarci questi permessi?
Oliveira diventò quasi arrogante. — È già tutto a posto. — Agitò una mano, per dire che era una sciocchezza. — Ma voglio che siate preparati. Non ci sono alberghi, a Pau Seco, è chiaro? Ci sono solo fango, merda e malattie. Sono parole che conoscete? Potreste sporcarvi.
— Non sarebbe la prima volta — commentò Byron.
Oliveira spense la cartina sulla scrivania. L’azzurro elettrico svanì. — No — replicò. — Lo avevo immaginato.
All’uscita, la segretaria consegnò loro i documenti, fascicoli spessi di carta marrone con lo stemma della SUDAM sbalzato su ciascun foglio.
— Grazie per la vostra pazienza — disse in tono educato.
5
Il buffo, pensò Oliveira poco dopo, era che il Brasile non apparteneva più ai brasiliani, ora che era diventato indispensabile per tutto il resto del mondo.
Era inevitabile, dopo che il regime di Valverde aveva chiesto aiuto militare alle nazioni dell’Anello del Pacifico. Avevano acconsentito tutti, più che volentieri. I giapponesi, i coreani e gli americani. Erano arrivati ed erano rimasti. Il Brasile controllava le risorse che facevano girare il mondo. E il mondo controllava il Brasile.
Oliveira non sentiva nessun obbligo di lealtà verso l’uomo che aveva preso contatto con lui tramite l’ambasciata americana. L’uomo si chiamava Oberg. Aveva capelli ormai radi e un lieve accento del Texas, sembrava un insegnante ma era, senza dubbio, qualcosa di molto meno gradevole. Oberg lavorava per l’Organizzazione, l’intricato complesso di organismi d’investigazione e azione che costituivano un secondo governo americano, potente e segreto. Considerato come stavano le cose, Oliveira gli doveva un certo rispetto. Ma non la lealtà.
Del resto, non sentiva obblighi di lealtà nemmeno nei confronti di Cruz Wexler, un collezionista borghese con agganci altolocati in Brasile e una fede tutta americana nella corruttibilità dei governi stranieri. Né, tantomeno, doveva qualcosa ai tre ingenui che si erano presentati nel suo ufficio quella mattina.
E senza lealtà, pensò l’uomo componendo il numero di telefono di Oberg, senza lealtà non esisteva nemmeno il tradimento.
Oberg rispose di persona. Sulla superficie dello schermo di Oliveira il suo viso apparve piatto e obliquo. Alle sue spalle si intravedeva una finestra di pietra e una pianta di mimosa. Oberg guardò Oliveira.
— Sono venuti? — chiese semplicemente, con voce melliflua, appena velata da un’ombra di impazienza.
— Erano qui poco fa. Volevano i documenti e li ho accontentati.
— Siete certo che fossero loro? Un uomo e una donna?
— Corrispondono alla descrizione. C’era anche un terzo uomo.
Oberg parve sorpreso. — Un americano?
Oliveira annuì e fornì una breve descrizione di Keller. Oberg prese appunti.
— Mi servirà una fotografia — disse infine l’uomo dell’Organizzazione. — E qualsiasi altra informazione possiate raccogliere.
La sua voce esigeva obbedienza. Oliveira, da buon subalterno professionista, aveva l’orecchio addestrato alle inflessioni del comando. Nei tipi come Oberg l’autorità era una dote naturale. Tra l’altro, aveva anche l’aspetto adatto: sembrava teso e pronto all’azione persino al telefono. Se fossimo cani, pensò Oliveira, dovrei offrirgli la gola.
— D’accordo — promise, piegandosi all’obbedienza ma sentendone tutto il peso.
Eppure Oberg era rimasto sorpreso alla notizia della presenza di un terzo uomo. Non sei così onnisciente come credi, pensò Oliveira, mentre l’immagine di Oberg scompariva dallo schermo. Hai ancora qualcosa da imparare.
Il pensiero gli procurò un fremito di soddisfazione. Chiamò la segretaria e si fece portare un secondo cafezinho.
Keller era seduto nella veranda della loro stanza d’albergo, la sera dell’ultimo giorno in Brasile, e osservava il traffico in uscita dalla città. Burocrati inscatolati nelle automobili di marca cinese e segretarie alle prese con autobus superaffollati. Intanto, il sole tramontava dietro il planalto.
Poco dopo, Teresa scostò la tenda di perline e lo raggiunse. Aveva in mano i permessi e i documenti ottenuti da Oliveira. Erano intestati a Teresa Maria Rafael, lo stesso nome che compariva sul documento d’identità comperato al mercato nero. Quel nome le era stato dato dalla sua famiglia adottiva, come aveva detto Byron, nei mesi successivi al grande incendio.
Teresa avvicinò una sedia e si sedette. Aveva una espressione pensierosa, pensò Keller. La stessa espressione che non l’aveva più abbandonata dal momento dell’incontro con Oliveira.
— È strano, a pensarci — disse finalmente lei. — Voglio dire, che delle persone normali facciano questo.
Keller rispose con un mugolio interrogativo.
— Insomma, mi colpisce. Di solito, quando sento parole come contrabbandiere o criminale penso alle stupidaggini che la Rete trasmette di notte. Ma qui è la verità, no? Siamo contrabbandieri e criminali.
— Per qualcuno sì — confermò Keller. — Ti spaventa?
— Credo di sì, specialmente ora che siamo qui. A casa era solo un progetto di Wexler. È stato lui a organizzarlo e a finanziarlo, e noi gli stavamo facendo un favore. Ma qui… la cosa dipende solo da noi, no? — Distolse lo sguardo. — Oliveira mi fa paura — affermò. — C’è qualcosa di sgradevole in lui. Non mi fido.
Keller fece un cenno in direzione dei documenti che aveva in mano. — Se fosse una persona di cui ci si può fidare non ci avrebbe dato quella roba.