— Ma non si tratta solo di lui. Sono sicura che c’è altra gente che desidera fermarci.
— L’Organizzazione — suggerì Keller. — Il Governo brasiliano, almeno in teoria.
Lei rispose con voce remota. — È il mondo reale.
— Anche troppo — replicò Keller. Poi aggiunse, d’impulso: — Puoi ancora tirarti fuori, se lo desideri. Non è troppo tardi per comperare un biglietto e tornare a casa. — Si strinse nelle spalle. — Magari sarebbe più saggio.
Teresa si alzò e andò ad appoggiare i gomiti alla ringhiera del balcone. L’ultima luce del giorno sembrava avvolgerla con dolcezza. Scrollò la testa. — Sono qui per una ragione precisa. E non pensare che io sia così fragile.
— Ti fidi così tanto di Wexler?
Lei considerò la domanda. — Tu non lo conosci — rispose.
— Ne ho solo sentito parlare.
— È stato ad Harvard per anni. Lo sapevi? Ha compiuto studi molto seri in criptologia. Lavorava nel campo della ricerca, prima che gli uomini del servizio di sicurezza lo tagliassero fuori, e così aveva libero accesso ad alcune delle prime pietre di Pau Seco. Tutti le infilavano nei microchip, capisci?, per decodificare i dati. Pensavano di ottenere rivelazioni strabilianti, la saggezza proveniente dalle stelle. Lo pensava anche lui, ma era più affascinato dagli aspetti che riguardavano l’uomo. Si era scoperto che, se toccate, le pietre generavano delle visioni. Nessuno riusciva a spiegare il fenomeno, che di conseguenza venne ignorato come "aspetto minore". Ma per lui fu diverso.
— Forse è un mistico — disse Keller.
— Ormai si occupa solo di questo — continuò Teresa. — Dell’antica idea della saggezza. Dice che sulla Terra non esiste niente altro, oltre alle pietre, che sia visibile, tangibile e al tempo stesso perfettamente alieno. La prova ultima dell’Altro.
— Ha fatto una barca di soldi.
— Ha mantenuto tutti i contatti giusti nei laboratori governativi, i vecchi amici di quando lavorava all’università. È facile per lui ottenere le pietre, o le loro copie, una volta che sono state decodificate. Così controlla gran parte del mercato nero costiero. Si è arricchito, è vero? Ma credo che sia sincero.
— Credi in ciò che dice? — chiese Keller, cercando di mantenersi neutrale.
— A proposito delle pietre? — Teresa si strinse nelle spalle. — Non lo so.
— Tu ne hai fatto l’esperienza.
— Per me è sempre stato qualcosa di più personale — disse lei, con calma. Il sole era tramontato e il cielo sopra la città era di un azzurro intenso e luminoso. — È possibile, Ray? È possibile guardare qualcosa di alieno come una pietra dei sogni, concentrandoti più che puoi, e arrivare a vedere la tua immagine riflessa?
Lui ricordò quello che gli aveva raccontato Byron. Teresa in una stazione di servizio nella Città Galleggiante, che vendeva i suoi lavori per comperare le encefaline. Non pensare che io sia così fragile, aveva detto. Eppure a lui sembrava che lo fosse. Fragile come il cristallo… se non fosse stato per quell’energia che le veniva da dentro, dalla sua inquietudine.
Avvertì una fitta di paura per lei, e questo era un male. Adhyasa, pensò. Il peccato degli Angeli. Si alzò in fretta. — Domani prendiamo l’autobus per Cuiaba — le ricordò. — È meglio andare a dormire.
Sopra il profilo scuro del planalto cominciavano a comparire le prime stelle.
Ma lei non dormì. Troppo caffè, pensò. Troppe cose su cui riflettere. Andò con Byron a fare una passeggiata, nella speranza di stancarsi.
Brasilia era silenziosa, di notte. Si udiva il ronzio discontinuo dei vecchi lampioni a potassio e, ogni tanto, il rombo di qualche lontano automezzo. Per strada non c’era nessuno, a parte qualche turista smarrito e un gruppetto di prostitute sedute sul bordo di una fontana. Le antiche torri bianche, ora vuote, sembravano quasi irreali.
Chiese a Byron perché avesse portato Keller con loro.
— Ne abbiamo già parlato. Lui conosce la zona. Può tornare utile…
— È affidabile? — chiese Teresa. — Tu ti fidi?
— Sì. — Ma il suo tono era più cauto.
— È un Angelo.
— E allora? Anch’io ero un Angelo.
— Ma hai cambiato vita.
Lui la prese sottobraccio. Sopra la loro testa, alla luce debole dei lampioni, si potevano vedere le nuvole che si spostavano velocemente.
— Avrei potuto essere come lui — disse Byron. — So come ci si sente.
— Come?
— Ti importa molto?
Lei si strinse nelle spalle.
— È come camminare su una nuvola — spiegò Byron. — Sei al di sopra di tutto. Della paura e persino del tuo corpo. Diventi una macchina, ti muovi e vai dove ci si aspetta che tu vada. Tutto è molto chiaro, estremamente lucido, perché non c’è più né il bene né il male, né il meglio né il peggio. Devi solo guardare. Ogni cosa è quella che sembra. Niente di più e niente di meno.
Quelle parole le suscitarono un ricordo. — Mi sembra di capire che può essere un’esperienza piacevole.
— Sì. Ma ti stanca. È qualcosa di freddo, come stare sulla cima di una montagna. Ti spaventa il fatto di essere così in alto rispetto a tutti gli altri. Hai paura di non riuscire mai più a scendere. E, infatti, succede.
— Anche a Ray?
— Forse sì.
— Ma hai detto che ti fidavi di lui.
Byron si strinse nelle spalle. — Credo che per lui sia sempre stata una scelta difficile. Si portava dietro dei brutti ricordi che risalivano al tempo di guerra e probabilmente è stata questa la spinta. Aveva bisogno di distaccarsene. La mia impressione è che una parte di lui continui a voler tornare indietro. Anche dopo tutto questo tempo. — Si voltò a guardarla. — È importante per te?
— Ero curiosa.
Tornarono verso l’albergo. — Non sarebbe una buona cosa se ti importasse troppo di Ray Keller — disse Byron.
Teresa alzò le spalle.
Quella notte sognò ancora la bambina sconosciuta con la tuta stracciata e le scarpe da tennis.
La bambina la fissava dal profondo dei suoi immensi occhi scuri. Come sempre, Teresa fu contagiata dall’impazienza di quello sguardo. Il buio l’avvolgeva come una cortina di fumo, e l’angoscia le palpitava intorno.
— Sei quasi a casa, ora — disse la bambina con voce appena udibile. — Sei quasi a casa.
6
Keller aveva dieci anni quando la scoperta degli oneiroliti nel Bacino delle Amazzoni riempì le testate dei giornali internazionali. Nel ricordo, era affacciato alla finestra dell’unica camera nell’appartamento sopra l’officina di suo padre, e puntava un fucile giocattolo verso il profilo marrone delle colline, mentre la televisione blaterava di "oggetti di origine extraterrestre". Era sabato e il ministero dei Lavori Pubblici aveva consentito l’erogazione dell’acqua. Suo padre, in cortile, insaponava la carrozzeria in fibra di vetro di alcune macchine. Il ragazzo prestava scarsa attenzione allo schermo televisivo, perché era convinto che tutta quella faccenda fosse una bugia.
Gliel’aveva detto suo padre la sera prima. Dalla grande poltrona in cui era seduto, al centro di una stanza squallida, aveva commentato: «Tutta merda, Ray. Credi a me!»
Keller aveva pensato che suo padre sembrava stranamente piccolo in quella poltrona enorme che sottolineava la sua magrezza, il gonfiore artritico delle dita e dei gomiti e i capelli ormai radi.
«Pietre provenienti dallo spazio, figurarsi!» La sua voce di adulto era carica di disprezzo e di autorità. Era emigrato dal Colorado prima della nascita del figlio, per condurre una vita, come lui aveva capito sin d’allora, infelice e anonima. «Cristo onnipotente, che fesserie!» Chi poteva dubitarne?