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Il suo scetticismo ebbe vita breve. Venne presto sostituito dalla noia, che fu in generale la reazione dell’intero paese. Negli anni successivi gli oneiroliti permisero la scoperta di molte cose interessanti, ma tutte estremamente astruse: una nuova matematica, una cosmologia più sofisticata. Cose importanti, ma poco spettacolari. Le domande più difficili, da dove erano venute le pietre?, chi le aveva lasciate?, rimasero senza risposta. E con il tempo, nessuno si preoccupò più di cercarla. Le congetture vennero lasciate ai cultori, agli scrittori di fantascienza e ai rotocalchi. Nella vita quotidiana c’erano faccende più importanti di cui preoccuparsi. I russi, per esempio, contrabbandavano missili telecomandati e software militari per destabilizzare i posseiros nel Bacino delle Amazzoni. Dove volevano arrivare?

«Merda di prima categoria» aveva borbottato il padre di Keller dal profondo della sua poltrona. Il ragazzo aveva assentito tra sé, puntando pensierosamente il fucile verso il tronco di una palma nana. Zing, aveva fatto il fucile.

Dieci anni più tardi aveva imparato a usare un fucile vero in una foresta altrettanto vera. Tra le truppe che combatteva in Brasile circolavano liberamente molte rozze riproduzioni in cristallo degli oneiroliti. La prima volta che Keller ne aveva vista una ne era rimasto impressionato; era una macchina, si era detto, uno strano apparecchio proveniente da un altro mondo. Ma quando l’aveva presa in mano era stato riportato immediatamente indietro nell’appartamento polveroso, impregnato dell’odore di benzina e di vernice che saliva dalla finestra, e aveva risentito l’eco della voce stridula di suo padre che diceva, credi a me! Suo padre era morto di cancro tre anni prima ma l’immagine era straordinariamente vivida, quasi una resurrezione. Keller aveva lasciato cadere la pietra di scatto come l’avesse sentita pulsare di vita propria nel palmo della mano, e si era ritratto, con un sussulto.

Non avrebbe mai immaginato che un ricordo potesse risultare tanto inquietante.

La strada per Cuiaba era disseminata di relitti di guerra. Teresa vide le sagome deformate di varie macchine belliche in alcune valli verdi di fianco alla strada, e sentì l’eco della violenza che doveva aver squassato la zona.

Era una strada relativamente nuova, le spiegò Keller, solo di poco anteriore alla guerra. Un nastro di macadam che tagliava la provincia di Goias come fosse stata disegnata da un geografo, che scavalcava con un ponte sospeso le acque tumultuose dell’Araguaia inoltrandosi in profondità nel Mato Grosso.

Il mondo che si stendeva oltre i finestrini dell’autobus l’impressionava e la spaventava. Le sembrava strano essere arrivata tanto lontana così in fretta. L’orizzonte era verde e sconfinato e lo sguardo poteva spingersi a una distanza davvero smisurata quando la strada saliva su una delle numerose alture. Una terra selvaggia, pensò Teresa. Quell’idea si era fatta sempre più reale e stupefacente. Una terra selvaggia dove non c’erano città, dove dominava l’anarchia della natura. Il paesaggio era profondamente alieno, come quelli che lei aveva visto nella trance provocata dalle pietre. Le poche tracce umane visibili, come un mezzo per il trasporto truppe dell’esercito con la corazza annerita in mezzo al verde, e i rapaci appollaiati sulle torrette sventrate, non facevano che rafforzare quella sensazione.

Da qualche parte, laggiù, c’era il posto dove Keller aveva conosciuto Byron. Storia sepolta. Da qualche parte, laggiù, c’era anche la miniera degli oneiroliti. La gnosi, o conoscenza perfetta del divino, come diceva Wexler. L’alieno, l’Altro, come lei aveva detto a Keller. E qualcosa di più personale.

Viaggiarono per tutta la durata del tramonto e ancora oltre. Il cielo divenne più scuro e le luci di lettura si accesero sopra le loro teste. Byron si tirò il cappello di feltro sugli occhi e si mise a dormire. Keller sprofondò nell’esame di una rivista che aveva portato da Brasilia. L’autobus era quasi vuoto. C’era qualche uomo d’affari con l’aria infelice e il vestito spiegazzato, un gruppo di coreani probabilmente drogati, e alcuni posseiros che russavano nei sedili posteriori. Tre o quattro turisti… come noi, pensò Teresa. E poi, ma noi non lo siamo. Non era il caso di cercare di dormire; le pressioni esterne erano troppo acute.

Poco prima di mezzanotte Keller reclinò il sedile e si appisolò. Lei si ritrovò a guardarlo, con un sorriso sulle labbra. Nel sonno, il viso dell’uomo si rilassava e diventava quasi diverso. Tutta la tensione del giorno sembrava quasi dissolversi.

È un Angelo, pensò Teresa.

Strano, quanto fosse facile dimenticarlo. Parlare con lui era come parlare con un milione di persone. Tutto quello che vedeva si avvolgeva nella memoria meccanica, sepolta chissà dove nel suo corpo. Un tesoro di memoria per le masse.

Teresa si chiese se poteva spegnerla… e se l’avrebbe fatto, avendone la possibilità.

Si addormentò, suo malgrado. Quando il calore del mattino la svegliò, il panorama selvaggio era sparito. L’autobus correva in mezzo a un rione fumante, con baracche di lamiera costruite su cumuli di sporcizia. Era la periferia di Cuiaba, spiegò Keller.

— È una città orribile. Un carnaio. Il mattatoio ne rappresenta l’unico vero affare. — Arricciò il naso. — Se ne sente già l’odore.

— Sei già stato qui?

— Durante la guerra — spiegò lui, stancamente. — Era una base logistica. Da qui guidavamo i veicoli da trasporto sulla BR-364. Nelle città rurali di quella zona l’attività di guerriglia era alta.

Dunque, era stata una città di soldati. Il che spiegava tutte le insegne che lei aveva visto in inglese e in giapponese corsivo: Bar Grill, Live Sex Acts, Uscite di Servizio. La stessa stazione degli autobus era una cavernosa struttura in cemento, gremita di varia umanità. Straripava di vecchi autobus diesel dal fumo puzzolente e i nomi sulle insegne vicino al finestrino del bigliettaio le risultavano completamente sconosciuti. Ouro Preto, diceva uno, Ariquemes, un altro. Teresa si mise la borsa in spalla mentre lasciavano la stazione, seguendo Byron che doveva guidarli in un albergo indicatogli da Wexler dove avrebbero trovato un uomo ad aspettarli, secondo quanto Wexler aveva promesso. Si sentì persa, a camminare in mezzo a quei vecchi edifici coloniali. Era un brutto quartiere, pieno di lividi bar e di uomini cenciosi che dormivano sui marciapiedi sconnessi. In un vicolo vicino all’albergo vide un’insegna che l’incuriosì: CHIESA DELLA VALE DO AMENHECAR, diceva, e sul finestrino polveroso sotto l’insegna era dipinta l’immagine di una mano protesa verso l’alto, con una pietra dei sogni che brillava nel palmo aperto.

Noi siamo vicini ora, si disse. E il pronome le venne così naturale che non ne notò la stranezza. Noi.

Da quel punto in avanti, secondo il piano riferito a Keller, avrebbero smesso di fare i turisti. Sarebbero passati nel sertao, per un giorno o due. L’autista di un autocarro, un espatriato vietnamita di nome Ng, li avrebbe trasportati a Pau Seco.

Ma, in albergo, Ng non c’era. Nessun problema, disse Byron. Avevano prenotato per tre giorni. Ng li avrebbe raggiunti l’indomani, assicurò. Due giorni dopo, al massimo.

Keller alzò le spalle, srotolando il sacco a pelo sul pavimento della stanza d’albergo.

"Albergo" era una definizione generosa. Cuiaba non era in alcun senso una città turistica. La costruzione era una scatola d’intonaco e legno marcio. Byron e Teresa occupavano rispettivamente i due soli lettini di cui era dotata la camera. Avvoltolato nel suo sacco a pelo, Keller giacque nel buio per un po’, conscio dei rumori della notte. Gli autocarri per il trasporto della carne gemevano lungo i budelli della città, negli spazi lasciati vuoti dagli antichi edifici. Era conscio anche della distanza tra se stesso e Teresa, e tra Teresa e Byron. Distanze ormai palesemente cariche di elettricità e di implicazioni.