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Sembrava una scena tratta da un altro secolo. Formigas che si arrampicavano su per i pendii come formiche vere, nel clamore assordante degli arnesi meccanici e delle voci umane. Forse gli Atzechi avevano estratto così il loro oro, pensò Keller, e si sentì cogliere da un senso di vertigine, come di fronte a un abisso, non solo di spazio ma anche di tempo.

Ng abitava in una baracca nella città vecchia, con vista sulla miniera e sui recinti dei lavoratori. La città vecchia si svegliava di notte. Era, come spiegò lui stesso, un concentrato di bordelli, banche e bar. Ogni giorno, almeno due delle migliaia di garimpeiros presenti diventavano ricchi: la città esisteva proprio per prosciugarli di quelle ricchezze. Di tanto in tanto, si udiva qualche sparo.

Keller era seduto nell’anticamera di legno della baracca, beveva con cautela da una bottiglia di cachaca bianca e ascoltava Ng che spiegava in quale guaio si trovavano.

Il vietnamita parlava un inglese molto elementare, con una lieve inflessione americana. — Non conosco Cruz Wexler — disse, stringendosi nelle spalle. — Il suo nome non significa niente per me. Due mesi fa sono stato avvicinato da un uomo che ha detto di essere un ispettore e di lavorare per la SUDAM. Era un brasiliano. Aveva le credenziali della SUDAM, ed era ben vestito. Mi confidò che c’era un acquirente interessato a comperare una pietra di profondità e mi chiese di procurargliene una. — Si stirò, nello spazio consentito dai tre tiranti che tenevano la baracca ancorata al fango, ed esaminò un buco nella propria maglietta. — Be’, non è una cosa facile. La sorveglianza è molto stretta. L’uomo ha detto una cifra; la cifra era interessante, e così gli ho promesso che avrei fatto quello che potevo.

— È tutto sistemato? — chiese Byron, speranzoso.

— Dovreste avere la pietra domani. È meglio fare in fretta. Ma dovete capire… voi siete qui come corrieri, vero?

— Sì — confermò Byron. — Dobbiamo prendere la pietra e portarla fuori dal paese.

— Nessuno vi ha detto che può essere pericoloso?

— Abbiamo i documenti…

— Carta! — Ng scrollò la testa. — Se fosse così semplice, qualsiasi forao con un po’ di cervello riuscirebbe a uscirne vivo. — Sogghignò. — Il contrabbando è scarso perché c’è un rigido controllo militare. In pratica si può fare quasi tutto, nella città vecchia. Ma ci sono i militari. Loro hanno i fucili e sparano. Il reato di cui stiamo parlando è ufficialmente punibile con la morte. Cioè, con un’esecuzione sommaria. Un processo — concluse con un sorriso ironico — sarebbe davvero insolito.

— Figlio di puttana! — esclamò Byron. — È una passeggiata, ha detto. Una fottuta vacanza! È una passeggiata al cimitero, ecco cos’è!

— Non preoccuparti — si intromise Teresa, con dolcezza.

— Ci ha fottuti!

— Byron, per favore…

— Maledizione — disse ancora Byron. Ma si sedette.

Lei si voltò verso Ng. — Se è così pericoloso, perché avete accettato di aiutarci?

Ng si appoggiò all’indietro, abbracciandosi le ginocchia.

— Mi annoio con facilità — rispose.

Ora riesco a sentirlo, pensò Teresa.

Nel cuore di quell’inferno, era così vicino. Sentiva dentro qualcosa che assomigliava a una fitta di dolore, all’amarezza di una vecchia perdita, a un attacco di malinconia.

Giaceva nel buio, nella baracca di Ng, rannicchiata su una stuoia, vicino al centro del mondo.

Malinconia, pensò, ma anche paura. Ormai poteva ammetterlo. Non era ingenua come Byron a volte sembrava pensare, ma la miniera l’aveva colta di sorpresa. L’aveva sconvolta con la sua brutalità, lo squallore, lo spreco di vite che vi si consumava. Non era inteso per diventare così, si disse.

Si rialzò a sedere nel buio. Attraverso le finestre senza vetri vedeva Pau Seco, stesa ai piedi della collina illuminata dalla luna. Qua e là brillavano delle torce, simili a stelle nell’oscurità.

Pensò agli Esotici, il popolo alato che aveva visto così spesso nelle sue visioni. Loro non le facevano paura, la sensazione della loro benevolenza era vivida e intensa. Eppure avevano qualcosa di profondamente diverso dagli uomini, qualcosa di più vitale che non la forma del corpo.

Non avrebbero mai creato niente di simile a Pau Seco. Non avrebbero mai immaginato che qualcuno potesse crearlo.

Teresa si sdraiò di nuovo nell’oscurità, stanca e confusa.

Non era stata del tutto un’idea sua venire fin lì. Era stato piuttosto un imperativo, qualcosa più da sentire che da comprendere, una specie di richiamo natio. La sua storia si perdeva nel buio, o meglio nelle fiamme che avevano distrutto la Città Galleggiante quattordici anni prima. La sua infanzia era un mistero. Era arrivata all’accampamento della Croce Rossa in condizioni pietose, ustionata, accecata dal fumo e praticamente muta. Era stata adottata, anche se l’adozione non era mai stata legalizzata, da una famiglia già numerosa di rifugiati guatemaltechi. Le avevano dato da mangiare, l’avevano rivestita e avevano cercato di imparare l’inglese da lei. Erano stati loro a chiamarla Teresa.

Lei era grata per le loro attenzioni, ma non si sentiva felice. Nel ricordo, quei giorni erano offuscati dal dolore e da un senso di perdita: aveva la straziante convinzione che qualcosa di estremamente prezioso le fosse stato sottratto. Si era affezionata a una bambola di pezza di nome Amy: gridava se qualcuno gliela portava via. Quando Amy cadde in un canale e scomparve sotto la superficie oleosa dell’acqua, lei pianse per una settimana. Si era adattata alla nuova vita abbastanza in fretta, ma l’angoscia senza nome non l’abbandonava mai… finché non aveva scoperto le pillole.

Una componente della famiglia, una donna grassa, di mezza età e di nome Rosita, che tutti chiamavano tia abuela, un giorno portò a casa le pillole dall’ospedale dove era stata ricoverata. Rosita soffriva di artrite reumatoide e prendeva le pillole per ricavarne, come diceva lei, sollievo. Erano narcotici analgesici, studiati per agire sui recettori di oppiacei del cervello. La donna era ormai assuefatta, ma alla clinica le avevano detto che le pillole non erano pericolose. L’assuefazione non sarebbe peggiorata, il che compensava il fatto che l’artrite non poteva migliorare.

Un pomeriggio, rimasta sola nella vecchia casa galleggiante della famiglia adottiva, Teresa rubò una pillola dal flacone di Rosita e la nascose sotto il cuscino. Aveva agito d’impulso, in parte per curiosità e in parte nella speranza che la pillola le garantisse lo stesso benessere proclamato da Rosita. Quella notte, a letto, la inghiottì.

L’effetto fu profondo e istantaneo. Dentro di lei, un’insospettata marea di angosce e sensi di colpa parve ritrarsi di colpo. Teresa chiuse gli occhi, assaporando il calore del letto, e sorrise per la prima volta dopo anni.

Tia Rosita aveva ragione, pensò. Sollievo.

Rosita andava a ritirare la ricetta due volte al mese. Due volte al mese, Teresa rubava una pillola dal flacone. Rosita non sembrava accorgersi del furto oppure, anche se se ne era accorta, non sospettava di lei. E Teresa non osava rubarne di più, per paura di attirare l’attenzione su di sé.

In ogni caso, viveva per quei momenti. Le pillole sembravano scoppiare dentro di lei, minuscole esplosioni di pace e di purezza. Incominciò a capire il senso di parole come solitudine o perdita e capì per la prima volta che potevano anche non avere un significato permanente o universale.

Aveva già sedici anni quando uno dei ragazzi che lei ormai considerava suoi fratelli, uno spilungone ventenne di nome Ruy, la condusse verso la zona deserta della darsena e le mostrò una manciata di compresse rosa e gialle, le stesse che Rosita si procurava in ospedale.