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— Allora è fatta? Parti?

— Pare di sì.

Byron sogghignò garbatamente.

Keller ordinò un panino all’annoiata cameriera del servizio diurno. — Che cosa ci trovi da ridere?

— Tu e io — riprese Byron. — Siamo tutti e due tanto pazzi da voler tornare indietro.

— Hai detto che era tutto sistemato. Hai detto…

— Lo so, ed è vero. Il passaggio è assicurato. Eppure… c’è un fondo d’ironia in tutto questo.

Byron aveva il diritto di parlare. C’era stato anche lui, laggiù, molti anni prima: come Angelo del plotone di Keller. Se fosse stato in vena avrebbe potuto esibire il tatuaggio azzurro sull’avambraccio magro, un Occhio ormai semisepolto nella peluria bionda, scolorito ma intatto.

Invece Keller, dopo la guerra, se l’era fatto cancellare. Era stato Leiberman a eseguire il trapianto di pelle. Un buon lavoro: solo un microrivelatore avrebbe individuato le cicatrici. Da quando si era stabilito nella Città Galleggiante, Byron era diventato un chimico oneirolita, e come tale si era potuto permettere di tenersi l’Occhio. Keller, come Angelo segreto, invece no.

Erano entrambi fuorilegge, pensò Keller. Benché così diversi.

— È un posto come un altro — disse.

— Il Bacino — replicò Byron. — Il Fiume, Rio Mar, il River Sea. Il Rio delle Amazzoni, Ray. Il Cuore del Mistero.

Keller sorrise. — Scemenze.

— Ti sei già fatto ricollegare?

— Non ancora. Lo farò tra un paio d’ore.

— Allora… è il tuo ultimo pasto da essere umano.

La cameriera gli portò il panino, e Keller lo guardò senza entusiasmo. — È questo che ne pensi?

— Una volta ho fatto anch’io il tuo lavoro.

— Quello che fai adesso è migliore?

Lui si strinse nelle spalle.

— Spacciatore — disse Keller.

— Non proprio.

Keller mangiò e Byron continuò a sogghignare finché l’altro non cominciò a trovare irritante quel sogghigno, come una specie di insulto. Erano davvero scemenze, pensò all’improvviso. Il ghigno, la spavalderia, il cachi consunto. E tutti gli aghi ipodermici.

— Non trattenerti — lo stuzzicò Byron. — Dimmi che cos’è che ti fa digrignare i denti.

Keller non si fece pregare, sia perché era irritato, sia perché l’amicizia era abbastanza lunga e solida da permetterlo.

— Può darsi — concesse Byron. — Può darsi che io sia un bluff. Ma non lo sei anche tu, Ray? L’Occhio che cammina? L’uomo che ha perso la sua umanità in guerra?

Keller trasalì. — Sì, lo sono anch’io — ammise.

— Ma certo. L’obiettività, non è vero? Come potresti negare di esserlo?

— Nemmeno tu lo neghi.

— Non ci penso affatto — confermò Byron. — Ma ti sbagli, credimi, se pensi la stessa cosa di Teresa.

— Non conosco Teresa.

— È per il suo bene. Tutto questo è per il suo bene.

Keller infilò la tessera magnetica nella fessura del tavolo e si alzò.

— Pensaci — disse Byron, perso di nuovo in qualche suo pensiero. — Tutto si muove in circolo. La ruota, Ray. Tutto ritorna.

L’ufficio di Leiberman si trovava in un edificio di modeste pretese sulle colline di Hollywood. I muri color pastello e l’insegna discreta lo rendevano simile a una clinica per aborti. Naturalmente, si trattava di molto di più. Leiberman era il neurotecnico della Rete, l’ultima risorsa. Trapiantava suggeritori digitali su attori distratti, in modo che non avessero più problemi a ricordare la loro parte e migliorava la loro presenza scenica o neutralizzava il terrore del palcoscenico con le sue preparazioni farmacologiche a base di psicodroghe a basso dosaggio. A volte innestava impianti AV per Angeli, come nel caso di Keller. Eseguiva chirurgicamente tutto ciò che era possibile far sfuggire all’ispezione dei cani addestrati. Nel suo ufficio non c’erano registrazioni di nessun tipo; non comparivano né nomi, né note di accredito, né numeri telefonici.

All’interno, la segretaria di Leiberman gli sorrise. Lui le presentò il biglietto e il passaporto. Gli occhi della donna tradirono un lampo sinistro. — Entrate — gli disse.

Dietro la seconda porta c’era l’ambulatorio, una stanza tutta in vetro e cromo, con gli strumenti chirurgici appesi a dei cavi a molla che scendevano dal soffitto. Leiberman lo salutò e l’accompagnò a una poltroncina. Era un uomo grasso, calvo, sensuale in modo volgare. Il camice gli tirava sul ventre.

— È un intervento breve — disse. — Togliete la camicia. Sedete.

La presa era incassata tra le spalle di Keller, vicino alla spina dorsale, un paio di millimetri sotto il derma.

— Un lavoro dell’esercito — gracchiò il chirurgo riportando alla luce il minuscolo frammento di metallo e ripulendolo. Ma era semplice retorica professionale: la presa svolgeva ottimamente la sua funzione. Durante la sua prima visita Leiberman aveva effettuato un accurato esame neurologico e aveva ammesso che l’impianto era eccellente: i tentacoli sintetici, più sottili di un capello, affondavano nel nervo ottico e nei gangli auditivi. Non avevano mai avuto bisogno di nuove tarature o di riparazioni. Il lavoro di Leiberman consisteva nell’aprire e chiudere la pelle, mantenendo sterile la presa, e inserire una memoria AV passiva per immagazzinare i dati di Keller.

— Ne fanno di nuove, molto buone, al giorno d’oggi — affermò il medico, prendendo la memoria AV da un involucro sigillato di perspex. Era più piccola di come Keller la ricordava, un fiocco di neve tra i rebbi delle pinzette chirurgiche. — Con una di queste siete a posto per due anni di tempo reale, audio e video. Ed è anche più robusta. Materiale nuovo, sapete.

Keller rimase seduto con il cranio immobilizzato in una ganascia metallica, mentre Leiberman lavorava. L’installazione della memoria e la verifica del funzionamento, provocarono l’invio di impercettibili impulsi EMF di ritorno nel cervello di Keller. Il suo campo visivo s’illuminò e infiorescenze impossibili gli comparvero dietro le palpebre. L’irritazione repressa che sentiva ribollire dentro di sé dall’ora di pranzo cominciò rapidamente ad attenuarsi. Una resa, pensò, ecco di cosa si trattava. Era la resa che lo aveva salvato. In quel guscio di ghiaccio, come Occhio Meccanico, Angelo Registrante, era al sicuro dalle devastazioni della memoria vera.

Si rilassò e sopportò il funzionamento difettoso dei suoi gangli visivi, cascate di fiamme color blu elettrico. Quelle visioni consumarono tutta la sua attenzione fino a quando Leiberman ritirò i suoi attrezzi e l’ambulatorio ritornò di colpo a fuoco.

— Siete a posto — dichiarò il medico.

Era vero. Lo sentiva. Niente di speciale, solo un’aura di accresciuta lucidità, che non aveva niente di fisiologico. La semplice certezza di essere di nuovo un Angelo. Tutto quello che vedeva e sentiva sarebbe stato registrato in silenzio sulla memoria molecolare che Leiberman aveva impiantato.

Si girò a guardare il neurochirurgo. Era un movimento diverso, ora, una carrellata e una messa a fuoco freddamente professionale.

Leiberman si accigliò. — Non fissatemi — protestò. — È indelicato.

L’impianto neurologico di Keller era stato installato in una base dell’Esercito a Santarem, durante il lungo conflitto brasiliano. Keller era stato spedito lì dal fronte, sulla contesissima superstrada BR-364 di Rondonia, in una condizione che i medici militari avevano definito "disfunzione emozionale". Lui li aveva sorpresi chiedendo di essere impiegato come Angelo.

Ogni unità combattente aveva un Angelo. Era la politica dell’esercito. L’Angelo, in un plotone di fanteria, svolgeva essenzialmente la stessa funzione della scatola nera, il registratore di volo, collocato nella carlinga di un aereo, e scatola era uno degli epiteti più gentili riservati a un Angelo Registrante. Byron Ostler, l’Angelo del plotone di Keller, gliel’aveva detto fin dalla prima volta. Proprio come depositari dell’intelligenza ultima di un’unità e possessori della registrazione fedele del combattimento, gli Angeli avevano diritto a determinati privilegi. Non avevano l’obbligo di sottoporsi a prolungati sforzi fisici. In combattimento venivano scrupolosamente difesi dai compagni. Indossavano speciali indumenti protettivi e non dovevano preoccuparsi di portarsi dietro le proprie riserve alimentari.