Sapeva che Byron si era innamorato di lei. E sapeva anche che lei non lo amava.
Per un certo periodo ci provò. Andò a vivere con lui, e fecero l’amore con tenerezza, se non con passione. Ma era un esperimento fallito in partenza, e lo sapevano entrambi. Lui la desiderava, le spiegò, ma non voleva che lei fosse spinta dalla semplice gratitudine.
Questo la fece sentire vuota e fredda. Teresa tentò di rassicurarsi, e anche di riaffermare una certa indipendenza, prendendosi altri amanti tra gli artisti che conosceva, ma lo sforzo si dimostrò vano. Il che la convinse di aver perso la capacità di amare, magari per colpa delle pillole.
Il suo legame ossessivo con gli oneiroliti si approfondì. Byron la presentò a Cruz Wexler, l’accademico che aveva scritto due libri sulle pietre e che dirigeva una specie di centro di ricerca fuorilegge nella vecchia proprietà di Carmel. Wexler, un uomo di mezza età, con un’espressione schietta e un enfisema progressivo e incurabile, si dimostrò entusiasta dei suoi lavori e li fece conoscere ad alcuni amici facoltosi. Così Teresa ricavò nuovi guadagni. Rimise a nuovo il suo studio nella Città Galleggiante e comperò attrezzi che non aveva mai potuto permettersi.
E quando una nuova inquietudine la sopraffece, insieme alla sensazione di essersi spinta fino ai limiti del probabile nella conoscenza degli oneiroliti senza aver ritrovato la propria completezza, fu ancora Cruz Wexler a darle una nuova speranza accennando all’esistenza di un nuovo tipo di pietre, quelle di profondità, che potevano fornire una risposta alle sue domande.
Lei avvertì un’ansia quasi fisica. — Posso averne una?
Lui sorrise. — Nessuno di noi può averla. Ho parlato con gli altri istituti di ricerca. I controlli sono severissimi.
Fu una delusione enorme. Le pietre riprodotte da Byron, sebbene generassero visioni del passato, non avevano mai risolto il mistero della sua prima infanzia. Qualche volta Teresa aveva rivisto l’incendio, un inferno di fumo e fiamme, ma niente che riguardasse se stessa. Continuava a ignorare dov’era nata e chi fossero i suoi genitori. I ricordi erano rimossi molto in profondità, aveva detto Wexler. Lei aveva cominciato a credere che le risposte che voleva fossero sepolte in un specie di pozzo buio. Quando ne avesse trovato la chiave, anche lei sarebbe diventata una persona nuova.
Un mese più tardi, Wexler le aveva detto di aver organizzato un acquisto, non in Oriente ma in Brasile, a Pau Seco, proprio dove si trovava la miniera. Era una mossa dispendiosa e poco ortodossa, ma ne valeva la pena. La nuova pietra avrebbe contenuto tutte le risposte, la saggezza misteriosa, la gnosi finale. Teresa fu contagiata dal suo entusiasmo.
Aveva solo bisogno di un corriere, spiegò Wexler. Una persona incensurata, che non avesse contatti troppo stretti con lui.
Byron rimase di stucco quando Teresa si offrì volontaria. — Tu non ne sai niente… Cristo, a che cosa pensavi quando gli hai detto che saresti andata laggiù?
— Non capisci. Io ho bisogno di andare. — Erano ore che camminavano su e giù per i canali, accanto alle bancarelle galleggianti riparate dalle tende, con il sale che luccicava sui camminamenti sotto una fila di luci al vapore di sodio. Teresa lo prese per mano, intuendo che era davvero spaventato per lei e che il suo bizzarro e tormentato amore era più vivo che mai. — È molto importante per me. Non posso rinunciare a questa possibilità.
— Vengo con te — disse lui.
Lei acconsentì, perché Byron conosceva il luogo dove sarebbero andati e perché la sua intuizione poteva rivelarsi corretta. Forse l’impresa non era così semplice come aveva promesso Wexler. Acconsentì anche quando Byron decise di portare con loro l’Angelo della Rete, Raymond Keller, altro veterano. Ma le sue concessioni si erano fermate lì.
E così erano in Brasile.
Solo una finestra la separava da Pau Seco. Poteva sentirne l’odore. Avvertiva la vicinanza di quegli oggetti antichissimi, le pietre venute dalle stelle, frammenti dispersi sottoterra. Ma la miniera era un luogo vasto e orrendo, che aveva frantumato le sue speranze. Aveva rischiato la sua vita, pensò tristemente, insieme a quella di Byron e di Keller, per una voce che sentiva nella mente. Per un semplice sogno.
Per la sensazione di essersi persa. Una sensazione che provava da anni, da tutta la vita.
Aveva paura di mettersi a dormire. Ripensare alle minuscole pillole nere, le encefaline sintetiche, aveva risvegliato il vecchio desiderio. Se ne avesse avuta una, pensò, l’avrebbe presa. Ed era un’idea infida e pericolosa.
Fissò il cielo senza stelle oltre i vetri e si augurò che spuntasse presto l’alba.
9
Stephen Oberg rimase perplesso quando incontrò il responsabile della sorveglianza militare di Pau Seco. L’uomo era un massiccio brasiliano dell’entroterra, con occhi scuri e un profondo senso della territorialità. Si presentò come Maggiore Andreazza e offrì a Oberg una sedia dallo schienale stretto e scomodissimo. Il suo ufficio si affacciava sull’ampia valle della miniera. Lui si accomodò in un’elegante poltrona girevole dietro la sontuosa scrivania.
— Grazie — disse Oberg.
Andreazza lo guardò come da lontano. — Dovete dirmi perché siete venuto fin qui — dichiarò.
E così Oberg dovette rispiegare tutto un’altra volta. Le potenze dell’Anello del Pacifico erano ansiose di assicurarsi che gli oneiroliti di profondità non cadessero nelle mani di persone poco sicure. A tal fine, le organizzazioni di sicurezza avevano intensificato i controlli negli istituti di ricerca in Virginia, a Kyoto e a Seoul. Tuttavia, un informatore vicino allo scienziato americano Cruz Wexler aveva avvertito l’Organizzazione che si premeditava un asporto proprio lì, a Pau Seco. Oberg era venuto per impedirlo.
Andreazza girò la poltrona verso la finestra. — Noi stessi siamo già molto impegnati con i controlli — fece notare.
— Lo so. — Con i fucili, pensò Oberg, le intimidazioni e le esecuzioni pubbliche. Solo l’anno prima c’erano state parecchie impiccagioni a Pau Seco. Eppure… Cercò le parole. — I controlli non sono stati abbastanza rigorosi.
Andreazza alzò le spalle. — Le formigas vengono perquisite ogni sera, quando lasciano la miniera. Abbiamo informatori nei recinti di lavoro. Non vedo che cosa potremmo fare di più.
— Non intendo criticare i vostri sforzi, Maggiore. Sono sicuro che sono encomiabili. Voglio solo localizzare tre americani. — Aprì la valigetta, ne estrasse le fotografie che aveva ottenuto dai funzionali della SUDAM e le fece scivolare sulla scrivania di Andreazza.
Il maggiore diede loro una rapida scorsa. — Se sono qui — commentò — dubito che siano ancora così puliti.
— Sappiamo che hanno un contatto nella città vecchia — insisté Oberg. — Qualcuno che probabilmente li ospita.
— Noi controlliamo la miniera — precisò Andreazza. — In qualche modo controlliamo anche le baracche, si capisce; ma non sopravvalutateci, signor Oberg. Fuori dal recinto vivono duecentocinquantamila persone. La città vecchia è nel caos. Senza nemmeno un nome, c’è un limite a ciò che possiamo fare.
— Abbiamo il nome — ribatté Oberg.