Il giorno seguente gli legarono polsi e caviglie a un marchingegno chiamato "due-per-quattro" che poi sospesero con una corda alle travi del soffitto. Cominciarono a colpirlo con dei manici di scopa, facendolo girare come una trottola. Ng vomitò e loro presero a colpirlo più forte. Alla fine lui svenne. Senza aver confessato ancora nulla.
Nel momento più freddo della notte, incapace di dormire per il dolore delle ferite, Ng se ne chiese il perché. Perché non confessare, dopotutto? Non si trattava certo di una questione di principio. Era implicato in un furto, non in una rivoluzione. Non era un partigiano, e neppure un martire. Perlomeno, non aveva alcun desiderio di diventarlo.
Eppure continuava a resistere. In parte, era un fatto di costituzione. Del modo in cui era fatto il suo corpo, alla lettera. Ng era soldato dalla nascita. Il suo corpo era fatto per l’aggressione, non certo per la paura. Dunque non era spaventato, e il dolore, sebbene terribile, diventa più sopportabile in assenza di paura. La morte lo spaventava, almeno in questo era umano; ma lui sapeva che sarebbe stato ucciso in ogni caso, dunque la confessione poteva servirgli solo per abbreviare il dolore. Sarebbe giunto anche a quel punto, si capisce. Ma era ancora presto.
Eppure, c’era qualcosa in lui che non risaliva all’educazione militare impartitagli a Danang. Un’ostinazione per la quale era stato spesso punito. «È il rischio che si corre con le alterazioni chimiche», gli aveva detto un giorno un esperto di genetica khmer. L’aggressività confina con la ribellione. Lui era testardo. Gliel’avevano detto spesso a Danang. Lo avevano anche picchiato, per correggerlo.
Aveva combattuto lealmente nelle offensive sull’Anello del Pacifico e aveva ucciso un buon numero di posseiros. Non poteva onestamente dire che era stata la ripulsa morale a fargli abbandonare l’esercito dopo la guerra. Solo in parte, forse. Ma Ng sospettava che la sensibilità spirituale fosse poco sviluppata in lui, quasi come la capacità di sentire paura. Ciò che provava era più personale. Il Brasile lo affascinava. Era immenso, da qualunque punto di vista. Lui non aveva mai sospettato che una singola nazione potesse comprendere una così ampia varietà di ricchezze, di miserie, di paesaggi. Avvertiva un mondo sconfinato dietro gli esigui margini che era stato allenato a riconoscere. Alla fine, si era chiesto se non ci fosse posto anche per lui in quel paese, un posto che gli offrisse un destino meno scontato della carriera militare in Tailandia, nelle Filippine o nella Manciuria occupata. Scomparve durante una licenza a San Paolo, una settimana dopo la firma del trattato di pace, ed entrò nella clandestinità.
Come clandestino non aveva diritti e viveva costantemente sotto la minaccia di un arresto, eppure fu in grado di assicurarsi una serie di lavori nel campo del commercio del legname che lo portarono sempre più vicino alla frontiera e in seguito fino a Pau Seco. La miniera degli oneiroliti colpì la sua immaginazione. Lo affascinavano le grandi possibilità che offriva, la stranezza dei ritrovamenti, il selvaggio contrasto tra povertà e fortuna. Se aveva un compito da svolgere nella vita, pensò, sicuramente lo avrebbe trovato lì.
Bene. Era stata un’intuizione infelice. A meno che, naturalmente, non fosse proprio quello il suo compito. Svolgere senza volere la funzione di vittima e martire. Restare appeso a una forca, come monito, nella collina che dominava la città vecchia.
In ogni caso, non aveva nulla da rimproverare a se stesso o agli americani. Gli era stata offerta una strabiliante somma di denaro, che lui aveva anche posseduto, per un brevissimo periodo. Considerata la posizione in cui si trovava, sembrava banale dirlo, ma erano solo le riflessioni di un condannato a morte: quel denaro avrebbe potuto permettergli di cambiare vita e se fosse ritornato indietro avrebbe preso le stesse decisioni. Aveva puntato e perduto.
Un errore di calcolo, dunque. Tutto lì?
No. C’era dell’altro.
Negli anni successivi alla guerra aveva maturato un profondo disgusto per gli uomini che controllavano Pau Seco, per Andreazza con i suoi brutali soldati e per i garimpeiros come Claudio che sfruttavano i loro operai. E nel breve periodo in cui l’aveva frequentata aveva scoperto di provare una cauta simpatia per la donna americana, Teresa, che era così straordinariamente sincera da sembrare quasi la rappresentante di un altro universo. Era una sensazione primitiva come la paura, ma quasi altrettanto forte. E forse anche questa l’aveva spinto a deludere le aspettative dei suoi torturatori. Aveva imparato a odiarli.
Con Oberg la questione era diversa. Lui odiava già quell’uomo. Continuava a odiarlo da anni.
Ng avvertiva la pressione dello sguardo di Oberg, mentre veniva spinto rudemente nella stanza degli interrogatori. All’interno c’erano due guardie di pace in uniforme grigia e il maggiore Andreazza. La tensione tra Ng e Oberg divampò subito, palese e immediata.
Ma io ho un vantaggio, pensò il vietnamita. Lui non sa chi sono io. Mentre io so tutto di lui.
Le guardie lo fecero sedere su una sedia di legno dallo schienale dolorosamente dritto. Ng gemette e quasi svenne per il dolore. Quella mattina aveva orinato sangue, e cominciava a temere che le ferite fossero più serie di quel che pensava.
Forse quella gente l’aveva già ucciso. Magari stava soltanto aspettando di morire.
Respirò a fondo, tra i denti, finché il cuore parve quietarsi e la testa accettò di sollevarsi. Qualcosa di nero gli oscurò la vista. Guardò Oberg e gli sembrò di vederlo in piedi alla fine di un tunnel, estraneo e lontano.
Oberg cominciò a parlare.
Disse molte cose prevedibili. Affermò di conoscere gli accordi che Ng aveva preso con Cruz Wexler e il complotto per rubare l’oneirolita. I testimoni, dichiarò, avevano confermato che lo scambio era avvenuto in un bar della città vecchia. Sapeva che gli americani avevano lasciato Pau Seco e voleva che Ng gli dicesse come avevano fatto ad eclissarsi e dove erano diretti.
Pronunciò tutto il discorso con una voce contenuta e suadente che Ng paragonò al rumore delle pompe idrauliche della miniera. Chiuse gli occhi e immaginò che lo stesso Oberg fosse una macchina, un ammasso fischiante di tubi e di leve, di filo spinato e di vapori bollenti. Una macchina fornita di ganasce, pensò. Ganasce di ferro e occhi fotoelettrici.
Una guardia lo colpì con il fucile per fargli aprire gli occhi.
Oberg era più vicino, adesso. Scrutava la sua faccia. Era così vicino che Ng sentiva il suo fiato caldo e profumato di menta. Capì di colpo, esaminando l’uomo con freddezza come se l’avesse guardato non da quella sedia ma da un altro posto più alto e pulito. Capì di colpo che Oberg era una menzogna. Il suo colletto inamidato era una menzogna. La tensione trattenuta a fatica e il lieve fremito all’angolo della bocca tradivano una moltitudine di menzogne. Oberg era una menzogna fatta di carne.
— Non ti farò del male — disse l’americano con calma. — Mi capisci? Non sono qui per farti del male.
E questa era una menzogna che si aggiungeva alle altre.