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— Ti conosco — bisbigliò Ng.

— Mi dispiace — disse Oberg. — Non riesco a sentirti.

— Ti conosco.

L’altro si accigliò.

Ng parlò a dispetto di se stesso. Un fiume di verità nel vuoto delle menzogne di Oberg. — So chi sei. — Chiuse gli occhi e sperò che la guardia non lo colpisse di nuovo. — Marciavamo attraverso il Rio Branco — continuò senza riprendere fiato. — Nei villaggi a ovest di Rio Branco. Era la primavera dell’87, poco dopo l’offensiva di aprile. Tu eri famoso. Lo sapevi? Tra i vietnamiti eri molto noto.

Oberg reagì. Afferrò i lunghi capelli di Ng e gli rovesciò indietro la testa contro il bordo dello schienale, per farlo tacere. Ma l’omino continuava a parlare, come avesse perso il controllo di se stesso.

— Ci macchiammo di azioni terribili. Uccidemmo molta gente. Posseiros. Per la maggior parte soldati. Uomini cenciosi, ma almeno erano armati. Così era meno facile sentirsi in colpa. Eravamo macchine, capisci? Macchine per uccidere, ma riuscivamo ancora a provare dei sensi di colpa. Molti di noi, almeno.

Oberg gli fece scricchiolare il collo contro la spalliera e lui ebbe paura di svenire. Il che lo rese infelice, perché si stava in un certo senso godendo l’unica vendetta che gli era rimasta. Fu Andreazza a intervenire, con il suo inglese curato. — Non vogliamo che muoia subito, signor Oberg — disse. E l’americano fu costretto a mollare leggermente la presa.

Ng aprì gli occhi, li fissò in quelli di Oberg e capì che l’americano lo odiava per ciò che sapeva. — Marciavamo attraverso il Rio Branco — continuò — per eliminare i focolai di guerriglia superstiti, dopo il tuo passaggio. Ma tu avevi lasciato tracce ben peggiori. — Il ricordo era vivido e Ng, ormai perso in quel viaggio a ritroso, divenne più solenne. — C’erano corpi dappertutto. Corpi di donne e di bambini. Ci nausearono. Era incredibile, che nauseassero persino noi. Però, in qualche modo, ci fecero sentire meglio. Noi eravamo macchine, ma non mostri. Fosti tu a dimostrarcelo. Tu eri la nostra consolazione. Qualunque cosa fossimo diventati, c’era qualcuno che era peggio di noi. — Guardò l’americano e, dal profondo della sedia, sorrise. — Tu ci hai fatto sentire di nuovo esseri umani.

Oberg bisbigliò qualcosa tra i denti, parole incomprensibili. Ng avvertì una breve, nitida ondata di felicità. Era la sua rivincita. — Se ne sono andati ormai da parecchio tempo — disse, riferendosi ai tre americani. Sentì svanire parte della sua lucidità, ma ormai non aveva più importanza. Aveva detto tutto ciò che voleva dire. — Non li troverai. È troppo tardi per trovarli.

Chiuse gli occhi e respirò a fondo, cercando di ignorare il dolore.

Oberg si girò verso Andreazza. — Uccidetelo — comandò a denti stretti. — Uccidete questo figlio di puttana dagli occhi a mandorla.

— C’è tempo — rispose Andreazza.

La sera prima di lasciare Pau Seco, Oberg raggiunse a piedi la collina che dominava la città vecchia, dove Ng era stato appeso a una forca come monito per le formigas.

C’era vento e il cielo era coperto di nubi. Il corpo di Ng girava su se stesso, appeso al proprio perno di corda. La morte lo aveva reso gonfio e Oberg riconosceva a stento in quella carcassa deforme l’uomo che gli aveva tenuto testa nella stanza degli interrogatori. Si lasciò sfuggire un mormorio di soddisfazione, un brivido di trionfo.

Il vietnamita aveva tenuto duro altri tre giorni, prima di confessare. E la confessione che aveva reso era risultata del tutto inutile. Oberg aveva saputo il nome della formiga che aveva fornito la pietra, Morelles o Meirelles, ma costui si era volatizzato insieme al denaro e ormai si trovava al sicuro in chissà quale quartiere industriale. Impossibile rintracciarlo. Raymond Keller, Byron Ostler e la donna di nome Teresa Rafael erano arrivati a Sinop su un furgone dell’eletronorte, così aveva affermato Ng. Dopodiché erano scomparsi. In direzione est, sospettava Oberg. Ma non c’era modo di confermare quei sospetti, a meno che loro non cedessero alla tentazione di usare le carte di credito per pagare chi li avesse aiutati a uscire dal paese.

Fino a quel momento, l’unico mezzo per trovarli era l’inseguimento. Bisognava partire da Sinop e seguire le loro tracce, dovunque portassero. Un compito noioso e poco gratificante, ma Oberg non era tipo da lasciarsi spaventare.

La collina desolata, con il suo carico di morte, lo fece sentire a disagio. Guardò la faccia insolente di Ng e fu di colpo assalito dalla paura che quegli occhi potessero aprirsi di nuovo e che quella bocca ricominciasse a parlare; che Ng si liberasse con un salto per sputargli addosso, qualche nuova odiosa accusa.

Era assurdo, naturalmente. I morti non dicono ciò che sanno. Doveva averlo detto qualcuno. Qualcuno che non gli importava ricordare.

Il cadavere continuava a muoversi, nel mare di vento proveniente dal Mato Grosso. Oberg rabbrividì e volse la schiena. Era disgustoso, pensò. Primitivo e incivile. Avrebbero dovuto seppellire i morti. Se non altro, per un minimo di decenza.

13

Keller si recò con Byron in un caffè sul porto del Rio delle Amazzoni, dove secondo gli accordi avrebbero dovuto incontrare un americano che poteva aiutarli a lasciare il Brasile.

Il Rio delle Amazzoni era così vasto da assomigliare al mare. L’acqua era gonfia e marrone; le navi ancorate parevano adatte ad attraversare anche l’oceano. Keller ordinò un tucupi e osservò un motopeschereccio israeliano staccarsi dall’orizzonte, con i radar e i pannelli solari stagliati contro il bordo del cielo. L’uomo atteso da Byron arrivò poco prima che il motopeschereccio arrivasse in porto. Era un veterano con i capelli tagliati a spazzola e un paio di occhi luminosi, quasi febbricitanti. Strinse la mano a Keller ma si ritirò di colpo quando Byron lo presentò con il suo nome, Denny.

— Credevo che fosse un colloquio strettamente riservato — osservò.

Byron guardò Keller. Keller annuì, mise sul tavolo i soldi per il tucupi e andò a fare una passeggiata lungo la strada del porto.

Si fermò ad osservare alcuni stivatori brasiliani che scaricavano un peschereccio. Sulla fiancata dell’imbarcazione spiccava il nome dipinto a lettere bianche, Esperance. Speranza, pensò Keller. Un bene di cui erano un po’ a corto, ultimamente. Teresa aveva preferito restare in albergo, con la scusa che aveva bisogno di stare un po’ da sola. Lui continuava a chiedersi se aveva fatto bene a lasciarla.

Teresa era tentata dalla pietra. Si trovavano a Belem ormai da una settimana, e Ray aveva osservato il nervoso balletto di attrazione e paura che lei aveva danzato attorno all’oneirolita. Naturalmente sarebbe stato meglio lasciarlo perdere finché non avessero raggiunto un posto più sicuro. Ma Teresa se ne sentiva attratta, e non lo nascondeva. Desiderio e paura. Paura ed esperance.

Inoltre, era preoccupato per il tempo che stavano perdendo in quella città. Erano in fuga, anche se era facile dimenticarsene o ignorarlo. Più a lungo rimanevano fermi nello stesso posto e più diventavano localizzabili. E, peggio ancora, le loro prospettive non erano affatto rosee. Byron aveva già tentato due volte di assicurarsi un passaggio aereo clandestino in uscita dal Brasile. Entrambe le volte l’accordo era saltato. Denny era l’ultima speranza, un amico di un amico, probabilmente a sua volta un contrabbandiere; ma questo a Belem non era un demerito. La città e il porto brulicavano di stranieri e di gente di passaggio, e Keller si consolò pensando che non era un male, considerata la situazione. Lì, in ogni caso, tre americani indigenti potevano anche non dare nell’occhio.

Ma, era pur conscio delle forze che erano state scatenate contro di loro, ed era ormai abbastanza lontano dalla pratica del wu-nien per preoccuparsi soprattutto di Teresa.