Schiacciò il tasto ENTER.
Il monitor si svuotò. La cabina si riempì di silenzio.
Quando non ne poté più di lavorare, timbrò per uscire e diresse la macchina a ovest. Aveva usato parte dell’anticipo avuto da Vasquez per affittare una stanza d’albergo, ma non aveva voglia di rientrare. Seguì una lunga arteria sopraelevata per il traffico veloce fino a raggiungere la linea costiera, poi girò a nord. Alla sua sinistra, la Città Galleggiante si stendeva fino alla lontana linea grigia della diga di marea. Attraversò rioni satellite e avamposti della cintura urbana, oasi alberate e zone industriali. Aveva già percorso parecchi chilometri quando capì dove si stava dirigendo.
Cattiva idea, pensò. Solo un pessimo impulso poteva averlo condotto fin lì: il peccato degli Angeli. Ma uscì dalla superstrada non appena scorse l’insegna.
ARTE DI MARE. Lei gli aveva fatto quel nome, una volta. Molto tempo prima.
Non era la galleria migliore, e nemmeno la più nuova. Le pareti di bambù erano fissate su una base di cemento ormai crepata e il tetto era coperto di tegole spagnole di un rosso gessoso. Non appena la spinse, la porta azionò un campanello. All’interno, un pavimento di legno deformato dal tempo sosteneva scaffali e vetrinette di vetro spesso e a prova d’urto che gli anni avevano tinto di grigio.
I lavori esposti, a giudizio di Keller, non mostravano grande originalità, ma provenivano sicuramente dalla Città Galleggiante. Intagli su gesso, collages metallici, qualche dipinto su cristallo, piuttosto caro e sotto vetro. Keller si soffermò a osservare un paesaggio stilizzato, evidentemente ispirato al mondo degli Esotici, con colline a panettone sotto un cielo azzurro e case a pagoda raggruppate in primo piano. Un posto reale, magari, un brandello di vita esotica strappato al tempo.
Stava ancora osservandolo quando la proprietaria sbucò da una tenda sul retro del negozio.
Era una donna grassa, con i capelli grigi e un’ampia gonna dai colori tenui. Lo guardò con grande sospetto.
— Desiderate qualcosa in particolare?
— Sì — rispose lui. — I pezzi di un’artista che ha lavorato per voi. Si chiama Teresa… Teresa Rafael.
La donna lo guardò con più attenzione, scrutandogli il volto e i vestiti. — No — disse alla fine. — Non abbiamo nulla.
Keller tolse di tasca la carta di credito del Pacifico, una tesserina color oro procuratagli da Vasquez. In realtà il suo accredito era molto limitato, ma la tessera in sé faceva colpo. La mise sul bancone. La donna passò il dito sul microcircuito incorporato. — Teresa non espone qui da molti anni — spiegò. — I suoi lavori hanno raggiunto buone quotazioni, capite? Ora ha un’ottima reputazione. Un futuro.
— Capisco.
La donna si passò la lingua sulle labbra. — Venite nel retro — propose.
Lui la seguì oltre la tenda. Nella stanza, più piccola della prima, c’erano una dozzina di pezzi. Tutti "d’autore", come Keller non tardò a capire. Tra i commercianti d’arte era pratica comune trattenere i lavori dei principianti che mostravano di avere del talento. Ma lui riconobbe subito quelli di Teresa. — Questi sono i suoi lavori iniziali — disse la donna, con sussiego.
All’epoca doveva essere ancora una bambina, pensò Keller. Ne rimase colpito. Alcuni erano goffi, ma nessuno banale.
Tre o quattro manifestavano già le qualità e la passione che le avrebbero fatto guadagnare il successo. Per la maggior parte erano sculture realizzate con materiale di scarto, composizioni fatte di tubi, fili di rame e scampoli metallici recuperati dalle vecchie fabbriche distrutte dall’incendio. Lei aveva lucidato e dato forma a quel materiale fino a farlo diventare una cosa viva, più liquida che solida.
— Vi intendete di questo genere di opere?
— No… non proprio.
Sotto lo sguardo allarmato della donna, Keller prese in mano una delle sculture e la esaminò. Dal groviglio metallico emergeva l’immagine di un viso. Forse due. Lui ruotò il pezzo tra le dita.
Un volto di donna, dall’aspetto desolato, ma stranamente infantile nella sua tristezza.
E un viso di bimba, con un’espressione adulta di fiera determinazione.
La gallerista gliela tolse di mano. Keller trasalì e frenò l’impulso di riprendersela. Lei disse una cifra, che corrispondeva più o meno alla somma che Vasquez aveva versato sul conto di Keller, meno le spese di vitto e alloggio. Una somma enorme. Ma lui accettò senza discutere.
Tornò verso l’albergo con il pezzo sul sedile accanto al suo. Era confuso e vagamente sorpreso di se stesso. Si sentiva quasi come un sonnambulo, a cui fosse capitato di vivere uno strano sogno. Sapeva solo che voleva qualcosa da quel cumulo di nodi metallici, qualcosa di tangibile. Un pezzo di lei, si disse, una reliquia. Una cosa proibita e, alla lunga, pericolosa: un ricordo.
Il mattino dopo tornò negli studi tecnici della Rete e richiamò sul monitor il lavoro del giorno prima.
Quello che vide lo sconvolse. Si appoggiò all’indietro nel silenzio claustrale della cabina di montaggio e continuò a guardare.
Aveva alterato i lineamenti di Teresa per proteggere il suo anonimato. Una procedura standard, che aveva eseguito quasi senza pensare. Con successo, dal momento che la donna non assomigliava più a Teresa.
Ma il viso che lui le aveva dato era quello di Megan Lindsey.
20
Stephen Oberg aveva più volte violato i confini della legalità dopo il disastro di Pau Seco, ma non si sentì mai un autentico fuorilegge fino al giorno in cui prese in affitto una modestissima balsa nella Città Galleggiante.
Era l’abitazione ideale per un fuorilegge, e lo faceva sentire tale. Le facce che si vedevano lungo i canali del mercato erano furtive, misteriose, nascoste. Probabilmente, anche lui aveva il medesimo aspetto, l’aspetto di un personaggio pieno d’ombre, estromesso dalle luminose autostrade della legge e dalle usanze comuni. L’unica luce, in quel posto, era il faro del proprio intenso desiderio. Gli abissi dell’oceano erano inquietanti e vicini.
Quella vicinanza lo preoccupava un po’. Quando scese la notte entrò in casa, srotolò il materassino sul pavimento di legno macchiato e si chiese se non avesse esagerato. Da sempre era abituato a dipendere da strutture esterne, per ciò che riguardava le regole e la disciplina. Era stato l’esercito, in un certo senso, a renderlo ciò che era. L’esercito gli aveva dato un nome, dal suono quasi magico: Aggressivo Latente. E non l’aveva considerata una patologia, ma piuttosto una dote, un’utile peculiarità del carattere. Per certe azioni, si poteva contare su di lui. Era un uomo senza scrupoli, ma leale, e la lealtà non gli era mai venuta meno.
Fino a quel momento. Adesso era un fuorilegge, un cane sciolto. Si era assunto un compito e lo svolgeva in proprio. Non pensava ad altro. Senza il suo intervento, la pietra di profondità uscita dalla miniera di Pau Seco avrebbe potuto essere riprodotta, diffondendosi a catena tra gli abitanti emarginati e misteriosi della Città Galleggiante. Probabilmente era proprio quello lo scopo che i creatori originali si erano prefissi. E lui non poteva permetterlo.
Lui capiva il pericolo, ed era persuaso di essere l’unico. Capiva la natura delle pietre, la loro estraneità, il loro potere di fissare la memoria. Aveva toccato Tavitch e, attraverso Tavitch, una pietra. E la pietra aveva toccato lui.
Era un oggetto sgradevole e pericoloso, una specie di arma. Corrodeva il midollo dell’anima. Non doveva essergli permesso di esistere.
Oberg lo credeva con tutta l’intensità con cui aveva creduto in ogni altra azione della sua vita.