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Cane sciolto, pensò, quasi con un senso di vertigine.

Il ragazzo era pallido e aveva gli occhi sgranati.

— Dimmi dove le hai prese — ordinò Oberg.

— Vaffanculo — replicò lui, con un filo di voce.

Oberg lasciò che la lama tracciasse una sottile linea di sangue. Alla luce della lampada il sangue sembrò chiaro e oleoso. Il ragazzo cercò di liberarsi, senza risultato.

— Dimmelo — insisté lui.

Ci volle un po’ di tempo, ma alla fine riuscì a farsi dire quattro nomi e quattro indirizzi approssimativi. Sarebbero stati utili per rintracciare la donna, nel caso che Tate non ottenesse nessuna informazione utile. Il ragazzo si rilassò, intuendo che Oberg era riuscito ad avere ciò che voleva. La faccenda era chiusa.

Chiusa, infatti. Ma non nel senso che intendeva lui. Con decisione, Oberg affondò il coltello nella gola del ragazzo, poi quasi senza sforzo sollevò il corpo sopra la ringhiera per buttarlo nel canale. Si udì un singulto strozzato, un tonfo, poi più nulla.

Era piacevole. Altamente gratificante.

Oberg pulì con un fazzoletto la lama del coltello, poi buttò anche il fazzoletto nel canale.

Il coltello lo portò a casa.

Il passato era morto e sepolto, pensò. E così doveva essere.

A volte aveva qualche problema d’insonnia. Come quella notte, ad esempio. In parte, la colpa era dell’adrenalina che si era riversata nel suo corpo al momento della morte del ragazzo; in parte era un’eccitazione più misteriosa.

Nei suoi sogni peggiori era sempre in Brasile, durante la guerra, impegnato in quelle che il comando definiva "spedizioni punitive" contro fattorie e villaggi colpevoli di appoggiare la guerriglia. La gente che uccideva finiva sempre per rialzarsi e puntare l’indice contro di lui, protestando la propria innocenza. Lui li uccideva di nuovo due, tre, mille volte. Loro si rialzavano, tetri, e cominciavano a ripetere ossessivamente il suo nome.

In Virginia aveva toccato Tavitch quando Tavitch aveva in mano la pietra. Il prigioniero l’aveva guardato negli occhi e aveva visto proprio quei sogni. Solo che avevano smesso di essere sogni. Era quella la cosa terribile. In qualche modo, attraverso Tavitch e attraverso la pietra esotica, i sogni si erano trasformati in realtà. I morti si erano ostinatamente rialzati e avevano cominciato a ripetere il suo nome.

Oberg giacque nel buio, perseguitato dai ricordi. Era innaturale. Un trucco alieno, uno scherzo della memoria. Il passato non c’era più, i morti erano morti e non parlavano. E poi, tutti sono destinati a morire. Lui stesso, un giorno, sarebbe stato ridotto al silenzio. Era nell’ordine delle cose: il compiacente oceano dell’oblio avrebbe coperto tutto. Era un assioma sacro, che rendeva sopportabile la vita. Non bisognava metterlo in discussione.

Rassicurato, riuscì a rilassarsi e a raggiungere finalmente un sonno calmo come il vasto e silenzioso oceano. Non fece sogni. E si svegliò con la sua risoluzione ben fissa nella mente.

Quella mattina fece una seconda telefonata a Tate.

— Keller è un Angelo — l’informò l’amico. — Lavora per un produttore indipendente che si chiama Vasquez. In questo momento si trova a Los Angeles. Probabilmente è occupato a decodificare il materiale negli studi della Rete. — Fissò Oberg con aria colpevole. — Immagino che ti basti.

— Sì — confermò Oberg.

— Sei pazzo, Steve. Lo sai, vero? Sei un fanatico stronzo.

Se era vero, non gli importava.

Il monitor si oscurò e Oberg rimase a fissarvi per qualche secondo la propria immagine riflessa.

21

Byron sapeva che la stava perdendo. Ormai era evidente.

Non parlò delle pillole. Del resto, parlarono molto poco in generale. Le discussioni erano superflue, utili solo a fomentare bugie. Lui la vide gettare il flacone delle pillole in un canale di scarico e ciò gli accese nel cuore un barlume di speranza. Più tardi scoprì che le pillole erano custodite in un angolo dell’armadio. Teresa aveva buttato solo il flacone, e la scena era stata recitata a suo uso e consumo.

Byron capì che quella era la vecchia Teresa, la stessa che lui aveva trovato sui gradini di casa anni prima. Una Teresa spaventata dalla morte, eppure desiderosa di morire. Quella parte di lei che voleva sopravvivere era stata messa a tacere. Indovinava anche dov’era cominciato tutto, nella stanza d’albergo sul Ver-o-Peso. Lui non aveva il potere di richiamarla alla vita. Non poteva giungere fino a lei, perché lei non lo amava.

Non era abituato ad analizzare le cose con tanta schiettezza, ma ormai i fatti erano diventati troppo chiari e dolorosi per poterli negare.

Cenarono insieme. C’era il pane comperato al mercato, tagliato in fette irregolari, e un pezzo di vero manzo. Quel pasto rappresentava quasi la fine del loro capitale. Teresa mangiò in modo meccanico. Quando ebbe finito disse che usciva a fare una passeggiata. — Ti accompagno — si offrì Byron. Ma lei scrollò la testa. Voleva rimanere sola.

Sola con le sue pillole, pensò lui. Sola a guardare la Città Galleggiante riempirsi di luci, e le onde infrangersi contro la diga. Lei si chiuse la porta alle spalle e Byron rimase nella baracca, ad ascoltare il ticchettio della pompa di sentina e le tavole del pavimento che gemevano mentre la balsa si alzava e si abbassava ritmicamente.

Ripensò a Keller.

Keller che era ritornato in terraferma e aveva ripreso la sua carriera nella rete, arrendendosi alla propria sorte.

Keller di cui lei era innamorata.

Keller, che avrebbe potuto aiutarla.

Il pensiero era molto scomodo, ma non poté evitarlo.

Un tempo si era dispiaciuto per l’amico. Keller rappresentava ciò che anche lui aveva rischiato di diventare. Una vittima, Cristo. La vittima di una serie di concause: l’infanzia, l’esercito, la propria codardia. Peccati perdonabili, aveva detto una volta Teresa. Ma adesso Keller se n’era andato, e questo era davvero inammissibile.

Ironia della sorte, pensò Byron. Teresa si stava uccidendo… e l’unica cosa che poteva fare per lei era andare da Keller e pregarlo di tornare.

Pregarlo di togliergli la donna che amava.

Uno scherzo amaro del destino. Pensò al tatuaggio che aveva sul braccio e al suo significato. Stava quasi decidendo di mandare un messaggio a Keller tramite il suo produttore, Vasquez, quando udì qualcuno bussare alla porta.

Aprì, con circospezione.

Si trovò davanti Cruz Wexler. Alla luce del crepuscolo avrebbe potuto avere mille anni. Respirava l’aria gonfia di salsedine così a fatica che c’era da dubitare che ne traesse giovamento.

— Voglio parlare con lei — disse Wexler.

Teresa lo trovò ad aspettarla quando tornò dalla passeggiata. La sua prima reazione fu di istintiva e immediata felicità. Wexler rappresentava il legame con un tempo più felice della sua vita.

Lo abbracciò e gli sedette di fronte. Solo allora si accorse di quanto le ultime settimane lo avessero invecchiato. Wexler si era ritirato a Carmel ormai da diversi anni, passando dalla celebrità a una vita da eccentrico di paese, e Teresa sapeva che la sua natura in buona parte istrionica aveva risentito di quel periodo di declino. Ma lei lo aveva sempre ritenuto sincero a proposito degli oneiroliti. Sincero nella sua convinzione che appartenessero a un altro mondo, e in buonafede anche quando contraddiceva gli scienziati governativi. Parlava sempre di ciò che definiva la gnosi, il Mistero, una specie di saggezza ancora da conquistare, e il suo ottimismo era stato inarrestabile quanto ingenuo. Gli ultimi avvenimenti dovevano averlo traumatizzato.

Continuarono a parlare, incuranti della notte. Teresa aveva preso una pillola mentre era fuori, ma solo una, e l’effetto si limitava a una lieve euforia che mascherava la stanchezza. In ogni caso, in quel momento non aveva voglia di pensare alle pillole.