Выбрать главу

Il viso di Keller tradì uno spasmo di dolore.

Oberg lo spinse fuori dalla macchina con il piede.

Lui cadde nell’erba alta, morente. La speranza che qualcuno lo vedesse era nulla.

Oberg chiuse la portiera, pulì il pollice insanguinato nel fazzoletto e ripartì in direzione del mare.

24

Teresa fece di nuovo ricorso alle pillole quando il sole stava abbassandosi sull’orizzonte.

Era salita sul letto della balsa con le pillole in tasca, ma senza una vera intenzione di usarle. Il desiderio non era mai così esplicito. Le teneva di riserva ed era felice di sentirle a portata di mano. Indossava un maglione perché l’inverno era ormai alle porte. Le giornate erano diventate più corte e più fredde.

Si sdraiò sul tetto metallico, con la schiena appoggiata a uno scambiatore di calore, ad ascoltare il rumore ritmato delle pompe di sentina e a guardare il cielo che si tingeva di rosso.

Tolse di tasca una manciata di pillole e le guardò.

Erano piccole, nere, anonime e vagamente resinose. Sordide, in qualche modo. Forse le avevano preparate artigianalmente in un laboratorio della Città Galleggiante, per poi stamparle in un torchio primitivo e infine venderle furtivamente a chi era ormai assuefatto. Come lei.

Sentiva di averne bisogno. Non era una faccenda di autocommiserazione. Era come se la visione traumatica provocatale dalla pietra nella stanza sul Ver-o-Peso le avesse riaperto vecchie ferite: aveva bisogno di un anestetico. Aveva sognato spesso la bambina, sentendola sempre di più come una presenza concreta, piena di rimproveri e di aspettative. Anche in quel momento, per esempio. La bambina pretendeva che lei gettasse via le pillole. La sua era una voce reale, lontana ma distinta.

Io ti ho salvato la vita.

Il che era assurdo.

Tu saresti morta nell’incendio. Volevi morire. Io ti ho salvato la vita.

Misteriosamente, lei era diventata due persone diverse.

Io ti ho salvato la vita. Tu prendevi le pillole e io facevo le sculture. Tu le vendevi…

No, pensò Teresa.

Mise alcune pillole in bocca e le inghiottì di colpo, rischiando di strozzarsi. Troppe, forse. Ma riuscirono a disperdere quella voce.

L’euforia iniziò con un senso di leggerezza che si sprigionava dallo stomaco. Quando la sensazione raggiunse la testa, lei respirò di sollievo. L’euforia la sosteneva perfettamente. Il cielo si era fatto scuro e il vento proveniente dalla diga era gelido, ma Teresa non ci fece caso. Si strinse nel maglione e si appoggiò all’indietro, respirando a fondo, con regolarità. Dappertutto cominciavano ad accendersi le lanterne e dai canali si alzava la prima nebbia.

Era quasi in stato di incoscienza quando udì Byron rientrare, accolto dalle domande concitate di Wexler. Teresa pensò che probabilmente non sapevano che lei fosse così vicina e paragonò il loro dialogo a un duetto di strumenti scordati. Il suono sconsolato, triste e rassegnato delle loro voci le sembrò quasi buffo. Chiuse gli occhi e rimase in ascolto, distinguendo in lontananza il grido dei gabbiani in cerca di un nido. Sotto la luna piena, la marea premeva contro le pareti della diga e l’acqua che sgorgava dai canali di sfogo generava un dondolio lieve e pulsante. La balsa la cullava dolcemente. Sospirò, sola nella splendente oscurità. Le voci si erano zittite, pensò. Che silenzio meraviglioso!

Ma improvvisamente, come risvegliata da un misterioso campanello d’allarme, si rizzò a sedere e vide un uomo solitario che si avvicinava lungo la passerella.

Non si era accorta che fosse tanto tardi. La maggior parte delle barche era già immersa nel buio, e in lontananza si intravedeva il chiarore di qualche discoteca galleggiante. L’uomo camminava adagio, con aria estremamente vigile. Costeggiò la balsa, poi si fermò. Teresa, dalla sua postazione sul tetto, si ritrasse per non essere vista.

La morte alla porta, passò.

Era una strana idea, ma Teresa la considerò con calma. La morte le era sempre stata molto vicina, fin dall’epoca dell’incendio, tanti anni prima. Lei l’aveva corteggiata, aveva tentato di sedurla. Se mai, era strano che si fosse fatta attendere così a lungo.

L’ascoltò bussare.

25

Keller rimase per un certo tempo inerte, sul bordo della strada vicino al campo petrolifero abbandonato.

Il sole gli trapassava le palpebre chiuse, riempiendogli di stelle il buio della retina. I sassi sotto la schiena sembravano acuminati come punte di coltello. Quando un aereo passò nel cielo sopra la sua testa, il rombo si trasformò in una musica demenziale.

Voleva muoversi ma non poteva.

Aveva dei momenti di lucidità, di tanto in tanto, ma non lo facevano sentire meglio. Gli sembrava che in quella calma assoluta ed esagerata il mondo invadesse tutti i suoi sensi.

Naturalmente, capiva ciò che gli stava succedendo. Oberg gli aveva inserito qualcosa nella presa. Un microcircuito allucinogeno, forse, ma molto più potente di quelli in commercio. Qualcosa che lo avrebbe mandato rapidamente in corto circuito. Un metodo intelligente, per un omicidio.

Se nessuno lo trovava sarebbe morto, e da morto sarebbe stato solo un altro caso di overdose. E se qualcuno l’avesse trovato ancora vivo, lo avrebbe scambiato per un drogato all’ultimo stadio e lo avrebbe mandato a morire in ospedale. Niente prove, dunque niente omicidio.

La prospettiva era così incoraggiante da sconvolgerlo. L’elettricità che pulsava nei fili agì da amplificatore, stimolando il flusso di acetilcoline e inondandolo di dopamina.

Tutto gli risultava doloroso, persino il respiro. L’aria gli raschiava i polmoni come se fosse stata brace.

Ogni più piccolo movimento, anche una contrazione volontaria, diventava una tortura.

Aprì gli occhi una volta e il sole lo colpì come una lancia. Keller urlò.

Entrò e uscì dal delirio mille volte. Gli sembrò di essere di nuovo in Brasile, durante la guerra, nel campo di manioca vicino a Rondonia. L’elettricità liberò tutti i ricordi sepolti nella mente. Fu scosso da ripetute crisi di convulsioni e, durante uno di quegli attacchi, ruppe il nastro metallizzato che Oberg aveva usato per legargli le mani. I polsi sanguinavano, ma il dolore non era peggiore di tutto il resto. Rotolò via dal margine della strada e si sentì precipitare verso il basso.

Quando aprì gli occhi di nuovo, il cielo era buio. Le lampade al vapore di sodio di fianco alla strada emanavano un chiarore giallo e spettrale. Era caduto nel fosso che costeggiava il fondo stradale e aveva i polsi feriti e la faccia graffiata.

Per un attimo il dolore risultò quasi sopportabile, tanto che riuscì a rialzarsi a sedere, con un gemito.

Sapeva che la pausa di lucidità non sarebbe durata a lungo. Mise una mano dietro la testa e tastò la ferita aperta che Oberg vi aveva lasciato. Sentì sotto le dita lo spigolo appuntito del microcircuito. Era tutto tranne che un generatore di piacere. Lo stava distruggendo, mangiandolo dall’interno. L’idea lo spaventò minacciando di precipitarlo di nuovo nel panico. Il microcircuito era reso scivoloso dal sangue e lui non riusciva né ad afferrarlo né a toglierlo. Era inserito troppo in profondità. Il semplice toccarlo gli procurava fitte di dolore indescrivibili.

Chiuse gli occhi, e li riaprì. Gli sembrò di sentire le palpebre raschiargli la cornea. Il battito del suo cuore era assordante. In pratica, si trovava in mezzo a un deserto. Le strutture metalliche dei pozzi petroliferi, corrose dall’immobilità, sembravano giganteschi insetti attaccati dalle termiti. Keller tentò di alzarsi in piedi e ricadde, con un grido. La terra girava come una trottola sotto i suoi piedi.