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Non aveva idea di quanto tempo gli rimanesse. Era impossibile stabilire quale fosse la potenza dell’apparecchio installatogli da Oberg. Lo avrebbe ucciso, era ovvio, ma era probabile che prima di ucciderlo cominciasse a distruggere i suoi tessuti cerebrali. Aveva visto molti drogati salvati troppo tardi dall’assuefazione, e rimasti in uno stato di demenza irrecuperabile. Magari il processo stava iniziando, oppure era già iniziato. Tremò, all’idea.

Ma quel pensiero era controproducente, e lo scacciò. Oberg aveva visto le registrazioni, e sapeva come raggiungere Teresa. Doveva aggrapparsi a questo, si disse. Oberg l’avrebbe senz’altro uccisa. Forse era già arrivato da lei.

Lui era l’unico a sapere. L’unico che poteva intervenire.

Quando qualcuno è in pericolo, bisogna aiutarlo.

Si sentì scivolare di nuovo verso il delirio.

Con la forza della disperazione, scavò nel fango e nella sporcizia che lo circondavano. Sapeva che cosa voleva. C’erano sicuramente delle bottiglie rotte, dei pezzi di vetro, da qualche parte. Trovò solo frammenti sbiaditi e smussati. Non facevano al caso suo. Singhiozzando, brancolò nel buio. Eppure dovevano essercene, in tutta quella spazzatura…

…avvertì finalmente qualcosa di tagliente, sotto le dita…

…ma il dolore e il delirio lo accecarono di nuovo. Rotolò a terra, ferito.

Sarebbe potuto durare per sempre.

Era ancora a Rondonia, e Megan Lindsey tendeva la mano verso di lui, chiamandolo, con i lineamenti distorti dalla paura, dal dolore e dalla terribile delusione… Un’eternità, prima che lui si accorgesse che non era il viso di Megan, ma di Teresa.

Impossibile. Aveva cancellato Megan dalla memoria, lei non poteva più raggiungerlo. E aveva cancellato anche Teresa. La pratica dell’Angelo. Il wu-nien. Entrambe erano state soppresse, tagliate via, estinte.

Ma allora, pensò con orrore, sarebbe accaduto di nuovo. Era una specie di maledizione. Teresa sarebbe morta, come Megan. Non le somigliava, ma era come con lei. Lui l’amava eppure la lasciava morire. Rimanendo lì permetteva a Oberg di ucciderla. Un fatto incontestabile, che non avrebbe più potuto cancellare o eliminare in alcun modo. Sarebbe rimasto scritto nella sua mente in modo indelebile.

Forse Teresa in quel momento stava morendo.

Il pensiero lo sconvolse tanto da riportarlo in sé.

Non sapeva quanto tempo fosse passato. Nel cielo brillava qualche stella. A distanza di pochi chilometri si intravedeva una scia di luce, probabilmente una strada a scorrimento veloce. Le sue membra sussultavano spasmodicamente facendogli capire che forse quello era il suo ultimo momento di lucidità. Il microcircuito di Oberg poteva aver già danneggiato il cervello in modo irreparabile. Ma non gli importava più. Gli importava solo di Teresa.

Lo capì all’improvviso, e con accecante chiarezza. Una chiarezza strana, scolpita in quella parte di lui rimasta integra. Era crollato tutto, la pratica dell’Angelo, il wu-nien, l’intera architettura della sua vita. E in mezzo a quei rottami era rimasto qualcosa di luminoso, il suo amore per lei. Sentendosi come in fiamme, lo capì e lo ammise.

Rovistò tra l’erba in cerca della lama che gli era parso di sentire qualche minuto prima, o forse erano ore. Capì di averla trovata quando si ferì il pollice, un dolore lancinante e amplificato. Gemendo, la raccolse e la guardò. Era un dischetto di alluminio, scartato da qualcuno, che aveva aperto una lattina di cibo in scatola. Presentava qualche ossidazione, ma non era ancora arrugginito senza rimedio. Brillò alla luce delle lampade. Keller non era ben sicuro che gli servisse allo scopo, e il dolore sarebbe stato terribile.

Ma non aveva scelta.

Si puntò il bordo del dischetto d’alluminio contro la nuca e cominciò a sfregarlo disperatamente contro la presa.

Il dolore gli risuonò dentro come un campanello. Cominciò a tremargli la mano, il che complicò le cose. Al secondo tentativo rischiò di svenire. La sua testa era come una zucca, svuotata di tutto tranne che del dolore. Immaginò la carne martoriata e sanguinante, sentì i fili neurali lacerarsi nel punto di congiunzione con la spina dorsale e avvertì un dolore puro e assoluto percorrergli urlando i gangli basali. Era impossibile, pensò. Anche per lei. Anche per Teresa, che amava. Impossibile… Ma il terzo maldestro tentativo ebbe successo. La presa cadde al suolo come un dente estirpato.

Keller avvertì un brivido e una grande sensazione di sollievo. Sollievo e un’immensa, sovrumana stanchezza. Voleva dormire. Era esausto. Aveva bisogno di dormire.

Ma non poteva. Non ancora.

Sospirando, con le gambe malferme, tremante e insanguinato, risalì sulla strada e cominciò a camminare.

26

Teresa, ancora intontita, obbedì a un impulso misterioso e scese dal tetto della baracca nella stanza sul retro e da lì, attraverso la porta, raggiunse la cucina.

L’uomo in cucina aveva una pistola.

Byron e Wexler erano seduti al tavolo, immobili. Wexler fissava l’intruso, con gli occhi spalancati, la faccia pallida e i polmoni in subbuglio. Byron si girò lentamente a guardarla. Sembrò volerla avvertire con gli occhi. Non fare niente, non ti muovere. Ma c’era una tale disperata fragilità nel suo sguardo che lei se ne sentì spaventata.

Le encefaline erano potenti, ma lei le aveva prese ormai da qualche ora. Sentì il cuore battere forte e la punta delle dita intorpidirsi. Gli ormoni dell’ansia si riversarono nel suo sangue, gelandolo. Era diventata una specie di campo di battaglia chimico, pensò.

Guardò l’uomo con la pistola. Stava fermo sulla soglia, con la porta socchiusa alle spalle. Doveva avere all’incirca l’età di Byron, era stempiato e aveva una bocca sottile e imbronciata. I suoi occhi erano fissi, impassibili, remoti. Sembrava calmo, in una situazione che avrebbe reso nervosa qualunque persona normale. Il che era preoccupante. Non c’era modo di capire fin dove sarebbe arrivato.

La morte, pensò Teresa. La morte in abiti borghesi, ferma sulla soglia della sua porta.

L’uomo la guardò. — Voglio la pietra esotica — disse.

Lei rispose senza pensare. — Non ce l’ho più. — Una bugia.

Strano, che lei dovesse mentire.

L’intruso, che poteva essere solo Oberg, l’uomo dell’Organizzazione di cui aveva parlato Wexler, spostò la pistola in modo da puntarla contro Byron. — Portami la pietra o ucciderò questi uomini.

— È nell’altra stanza — cedette Teresa senza esitazioni. Capiva che lui stava facendo sul serio.

— Vai a prenderla — ordinò Oberg. — Lascia la porta aperta.

Lei urtò contro lo stipite, poi camminò come in sogno verso l’armadio dell’Esercito della Salvezza.

Guardando la scena dal punto dove era seduto, Cruz Wexler lottò per ritrovare il fiato.

Non riusciva a distogliere lo sguardo da Oberg. Oberg con la pistola, che in qualche modo era riuscito a trovarli. La pistola puntava la sua bocca a poca distanza da lui, ed era anche troppo facile immaginare un proiettile che ne usciva per affondare nelle sue carni.

Tanto stava morendo in ogni caso. L’enfisema era molto progredito e lui si sentiva allo stremo. Il suo denaro era stato confiscato dall’Organizzazione e non poteva dunque permettersi dei nuovi polmoni o una cura a lungo termine. Che importanza aveva il tipo di morte, dato che morire era comunque inevitabile?

Invece aveva importanza. E molta.

Negli ultimi decenni della sua vita si era perso a inseguire dei misteri. La Saggezza, la Gnosi, la Pietra Filosofale. Era stato un gioco, e anche un affare molto proficuo. Eppure, lui era stato sincero. Fin dall’inizio gli oneiroliti gli avevano ispirato la sensazione di trovarsi sull’orlo di una rivelazione sublime.