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Ma la morte, come mistero finale e gnosi assoluta, lo spaventava terribilmente.

Guardò Oberg che a sua volta guardava Teresa. — Ora portala qui — disse l’uomo, riferendosi alla pietra. La temeva e l’avrebbe distrutta, insieme al mistero che vi era custodito.

Ci fu un movimento nel buio, oltre la porta ostruita dalla figura di Oberg, una specie di guizzo fulmineo… Wexler sentì il cuore martellargli all’improvviso dentro le costole.

Prendila.

Teresa osservò la pietra di Pau Seco, avvolta dalla tela cerata, nascosta nelle profondità del cassetto di legno.

Prendila. Toccala.

Era la voce, nuova e antica, dentro di lei. Quella voce che le encefaline avrebbero dovuto zittire. La voce della bambina morta nell’incendio quattordici anni prima, e viva dentro di lei, a dispetto di tutto. Ormai quasi vinta, a dir la verità, ma resuscitata una volta di più dalla drammaticità della situazione. Prendila, tienila in mano, toccala.

La pietra dei sogni. Il pozzo dei ricordi.

Si volse a guardare l’uomo con la pistola. Con grande impazienza, lui le fece cenno di sbrigarsi.

Lei mise la mano nel cassetto. Per un attimo senza tempo vide se stessa che gli consegnava la pietra e lui che se ne andava lasciandoli vivi. Meglio per tutti, pensò Teresa. Lei sarebbe stata libera dal giogo dei ricordi. Libera di rannicchiarsi nel ventre comodo e opaco dell’assuefazione alle encefaline. Sognò che succedesse, che Oberg permettesse a tutti loro di continuare a vivere.

Ma sapeva che non sarebbe stato possibile. Oberg era la Morte, ne aveva l’aspetto e l’odore. Li avrebbe uccisi. Era inevitabile.

Prendila. La voce era più insistente, ora. Quasi assordante.

Bene, pensò Teresa. Era la bambina a voler vivere, a preoccuparsi. Non lei. Lei non l’aveva mai desiderato.

Prese l’involto, senza aprirlo. Ma la vecchia tela cerata si sciolse e la pietra nuda ricadde nel cassetto. Lei allungò istintivamente la mano.

I poteri dell’oneirolita pulsarono nel suo braccio, mentre si voltava.

27

Keller si era legato un fazzoletto attorno al collo per nascondere la ferita, ma quando finalmente giunse alla Città Galleggiante il fazzoletto era inzuppato di sangue.

Non si faceva illusioni sul tempo impiegato. Aveva camminato per un paio di chilometri lungo il bordo della strada, costeggiando una landa desolata, fino a raggiungere un piccolo quartiere spagnolo dove, in una bodega aperta tutta la notte, aveva potuto chiamare un taxi. Era coperto di sporcizia, aveva i vestiti strappati e sanguinava. Il tassista volle vedere i soldi e il documento di identità prima di aprirgli finalmente la portiera. Scendendo, lui gli lasciò il sedile macchiato di sangue.

Nella Città Galleggiante si perse due volte, a causa della fretta e della stanchezza. Si spinse troppo lontano lungo i canali bui, allontanandosi dalle luci gialle dei caffè ormai vuoti e dalle barche del mercato che dondolavano sotto la luna di mezzanotte. Un vento freddo, gonfio di salsedine, gli trapassava i vestiti. Dovette ritornare sui suoi passi, sforzandosi di riconoscere un ponte o magari un incrocio di canali, finché non ritornò a orientarsi. Continuò a camminare, mentre le stelle ruotavano sopra di lui come le lancette di un orologio. Il tempo, pensò. Forse ne aveva ancora a sufficienza per salvarla.

Alla fine identificò il canale di alimentazione che scorreva accanto alla balsa affittata da Byron. Era un vecchio passaggio commerciale a senso unico, le acque erano recintate e ai bordi si assiepavano file di baracche, difese da catene o filo spinato e trattenute da alzate di cemento macchiate di salsedine. Una passerella seguiva il canale dalla parte della terraferma, permettendo l’accesso alle baracche. Quando vide quella di Byron scoprì che era una delle poche ancora illuminate. Intorno, tutto era buio e silenzioso. I mulini a vento sul tetto cigolavano, mossi dalla brezza irregolare che proveniva dalla diga.

Stanco oltre ogni limite, ma lucido, Keller affrontò in silenzio l’ultimo tratto della passerella.

La porta era socchiusa.

Lui si sforzò di calmare il respiro. Non era più nella condizione di accresciuta sensibilità in cui l’aveva precipitato il microcircuito truccato, ma il dolore era comunque tremendo. La ferita che si era procurato all’altezza della nuca era profonda e aveva perso molto sangue. Correva il rischio di svenire da un momento all’altro. Più tardi, si augurò. Solo un po’ più tardi.

Oberg era appena dietro la porta.

Keller rabbrividì scorgendo la pistola che teneva in mano. Da lì, dal margine della passerella, con una rete metallica alle spalle e un pilastro di cemento di fianco, riusciva a scorgere Oberg e, più in là, il tavolo a cui erano seduti Byron e Cruz Wexler, immobili. Non riusciva a vedere Teresa. Il che non significava che fosse morta, si disse, preso da un senso di vertigine. Poteva ancora essere viva.

Aveva bisogno di crederlo.

Si rese conto di colpo, con avvilita incredulità, che non possedeva nessun’arma. Niente con cui minacciare Oberg. Nemmeno un coltello a serramanico. Era completamente indifeso. Aveva fatto tutta quella strada per niente. Ridicolo. Gli venne quasi da ridere.

Invece, calcolò l’angolazione di quella porta semiaperta. Poteva buttarcisi contro, sorprendendo Oberg alle spalle e permettendo a Byron e Cruz Wexler di reagire in qualche modo. Una speranza patetica. Ma prese fiato e si spostò in avanti.

La rugiada si era condensata sulle assi della passerella, vecchia e scivolosa di muschio. Keller, stanchissimo, mise un piede in fallo e cadde sul ginocchio.

Si riprese subito, con gli occhi alla porta, ma il rumore delle sue mani sul legno bagnato risuonò nella notte come una fucilata. Impotente, guardò Oberg voltarsi e puntare la pistola contro di lui.

Wexler si alzò mentre Oberg si girava.

Fu il primo a sorprendersene, perché non l’aveva previsto. Più che la spinta dell’eroismo sentiva una grande paura. Eppure si era alzato. Il corpo si ribellava contro la propria inutilità.

Una volta in piedi non ebbe più esitazioni. Rovesciò il tavolo, che non aveva grande consistenza, e lo guardò ricadere in avanti. Vide Byron guardarlo a bocca aperta. Avvertì una fitta di dolore al petto, segno che i suoi polmoni reclamavano a gran voce un po’ di ossigeno. Ma, per il momento, fu in grado di ignorarla.

Si spostò verso Oberg.

Oberg, nel frattempo, si era scostato dalla porta. La sua impassibilità aveva ceduto, lasciando il posto allo sbalordimento e anche, brevemente, alla paura. L’angolazione della pistola era cambiata. Sbatté le palpebre quando il tavolo picchiò con fragore sul pavimento.

Wexler acquistò decisione e rapidità, spostandosi verso Oberg. In quella folle corsa dimenticò tutto, allargando le braccia. Si accorse appena che Byron si alzava e che Teresa stava per tornare nella stanza. Tutta la sua attenzione era concentrata su Oberg.

L’uomo si ritrasse contro il muro, e la sua faccia mutò, indurendosi. Alzò la pistola con un movimento rapido.

Troppo tardi, pensò Wexler. Per uno di noi è troppo tardi.

Lo sparo risultò assordante nello spazio angusto.

Il dolore e la forza d’urto lo spinsero indietro.

Keller irruppe nella stanza. Se qualcuno è in perìcolo bisogna aiutarlo… Rimase momentaneamente stordito, alla vista di Wexler riverso sul pavimento, in un lago di sangue. Guardò Oberg, che sorrideva distrattamente, tenendo la pistola puntata contro di lui.

— Cristo — disse Byron. — Oh, Cristo.

Keller crollò contro il muro. Il mondo si era ridotto a quell’uomo, con la sua pistola. Non aveva più via d’uscita. Chiuse gli occhi per un attimo.