— Ne ho abbastanza di discussioni da intellettuali — disse Carol ridendo. — Ce ne siamo occupati per ore. Siamo in spiaggia, per l’amor del cielo. Chi vuole venire a nuotare con me?
— Io — esclamò Jeanine. — Forza, Jack.
Si alzarono tutti, spazzolandosi la sabbia dai vestiti togliendo gli occhiali da sole. Richard aiutò Leisha ad alzarsi ma, appena prima che si tuffassero in acqua, Tony le appoggiò una mano sottile sul braccio. — Solo un’altra domanda, Leisha. Riflettici su. Se le nostre realizzazioni saranno migliori di quelle della maggior parte delle altre persone e se commerceremo con i Dormienti quando sarà di mutuo beneficio, senza fare distinzioni fra forti e deboli… che obbligo avremo nei confronti di coloro che sono così deboli da non avere nulla da scambiare con noi? Finiremo comunque per dare più di quanto non riceveremo: dovremo farlo anche quando non otterremo assolutamente nulla in cambio? Dovremo prenderci carico dei loro deformi, handicappati, malati, fannulloni e inetti con i prodotti del nostro lavoro?
— I Dormienti devono farlo? — ribatté Leisha.
— Kenzo Yagai direbbe di no. Lui è un Dormiente.
— Lui direbbe che ricevono i profitti del commercio contrattuale anche se non fanno parte direttamente del contratto. L’intero mondo è più sano e meglio rifornito grazie all’energia-Y.
— Venite! — gridò Jeanine. — Leisha, mi stanno buttando in acqua! Jack, smettila! Leisha, aiuto!
Leisha si mise a ridere. Appena prima di afferrare Jeanine, colse l’espressione sui volti di Richard e Tony: Richard era serenamente allegro, Tony infuriato. Con lei. Ma perché? Che cosa aveva mai fatto, eccetto discutere in favore della dignità e del commercio?
A quel punto Jack le gettò addosso dell’acqua, Carol spinse Jack nel caldo spruzzo e Richard fu lì con le braccia attorno a lei, ridendo.
Quando lei si tolse l’acqua dagli occhi si accorse che Tony se ne era andato.
Mezzanotte. — D’accordo — disse Carol. — Chi è il primo?
I sei ragazzi nella radura circondata da rovi si guardarono l’un l’altro. Una lampada a energia-Y, tenuta accesa, per creare un po’ di atmosfera, proiettava ombre inquietanti sui loro volti e sulle loro gambe nude. Attorno alla radura, gli alberi di Roger Camden si ergevano fitti e scuri formando una parete fra loro e la più vicina delle dépendance della casa, Era molto caldo. L’aria di agosto incombeva pesante, cupa. Avevano votato decidendo di non portare un campo-Y ad aria condizionata perché quello doveva essere un ritorno al primitivo, al pericoloso: che fosse primitivo.
Sei paia di occhi fissarono il bicchiere che Carol teneva in mano.
— Forza — disse lei. — Chi vuole bere? — Aveva una voce baldanzosa, aspra in modo teatrale. — È già stato abbastanza difficile recuperare questa roba.
— Ma come hai fatto? — chiese Richard, il membro del gruppo, a parte Tony, con le minori conoscenze familiari influenti e la minor quantità di denaro. — In forma liquida, come questa?
— L’ha presa Jennifer — disse Carol, e cinque paia di occhi si spostarono su Jennifer Sharifi la quale, da due settimane in visita a casa di Carol, li stava confondendo tutti. Era la figlia nata in America di una stella del cinema di Hollywood e di un principe arabo che avrebbe voluto fondare una dinastia di Insonni. La stella del cinema era una nota tossicodipendente e il principe, che aveva tratto la sua fortuna dal petrolio e l’aveva investita in energia-Y quando Kenzo Yagai stava ancora chiedendo le licenze per i primi brevetti, era morto. Jennifer Sharifi era più ricca di quanto non sarebbe diventata Leisha un giorno e infinitamente più smaliziata nel procurarsi le cose. Il bicchiere conteneva interleukin-1, uno stimolante del sistema immunitario, una delle molte sostanze che, come effetto collaterale, portava rapidamente il cervello a un sonno profondo.
Leisha fissò il bicchiere. Una sensazione calda le percorse la parte inferiore del ventre, non molto diversa da quella che provava quando lei e Richard facevano l’amore, Si accorse che Jennifer la stava guardando e arrossì.
Jennifer la turbava. Non per le ovvie ragioni per cui turbava Tony, Richard e Jack: i lunghi capelli neri, il corpo esile e slanciato in pantaloncini e reggiseno. Jennifer non rideva. Leisha non aveva mai conosciuto un Insonne che non ridesse e nemmeno uno che parlasse così poco, con tanta deliberata indifferenza. Leisha si trovò a rimuginare sulle reticenze di Jennifer Sharifi. Era una sensazione strana da provare nei confronti di un altro Insonne.
Tony disse a Caroclass="underline" — Dallo a me!
Carol gli consegnò il bicchiere. — Ricorda, ne basta un piccolo sorso.
Tony sollevò il bicchiere portandolo alla bocca, si fermò e fissò gli altri da sopra il bordo con uno sguardo fiammeggiante. Bevve.
Carol riprese il bicchiere. Guardarono tutti Tony
Nel giro di un minuto, giaceva a terra, nel giro di due, i suoi occhi si chiusero nel sonno.
Non era come vedere i genitori, i fratelli, gli amici addormentati. Si trattava di Tony. Distolsero lo sguardo, evitarono a vicenda gli occhi degli altri. Leisha sentì il calore fra le gambe tirare e pizzicare in modo vagamente osceno. Non guardò Jennifer.
Quando arrivò il turno di Leisha, lei bevve lentamente, quindi passò il bicchiere a Richard. Sentì la testa pesante, come se fosse stata imbottita di stracci bagnati. Gli alberi al margine della radura si offuscarono. Anche la lampada portatile si offuscò: non era più brillante e nitida ma schiacciata, rigonfia; se l’avesse toccata avrebbe macchiato. Poi l’oscurità le avvolse il cervello, portandoselo via: portandole via la mente. — Papà! — Cercò di gridare, di afferrarlo, ma poi l’oscurità l’annullò.
In seguito ebbero tutti il mal di testa. Trascinarsi attraverso gli alberi nella tenue luce mattutina fu una tortura, frammista a una strana vergogna. Non si toccarono l’un l’altro. Leisha camminò il più lontano possibile da Richard.
Jennifer fu l’unica a parlare, — E così adesso sappiamo — disse, e la sua voce faceva trasparire una strana soddisfazione.
Occorse un giorno intero prima che le forti pulsazioni lasciassero il fondo del cranio di Leisha o la nausea il suo stomaco. Rimase a sedere da sola nella sua camera aspettando che le passasse la sofferenza e, nonostante il caldo, continuò a rabbrividire.
Non aveva nemmeno sognato nulla.
— Voglio che tu venga con me questa sera — disse Leisha per la decima o la dodicesima volta. — Partiamo tutt’e due per il college fra soli due giorni: è l’ultima occasione. Vorrei davvero che tu conoscessi Richard.
Alice stava sdraiata a pancia in giù sul letto. I suoi capelli, scuri e lucidi, le ricadevano sul volto. Indossava una costosa tuta di seta gialla firmata Ann Patterson, tutta sgualcita attorno alle ginocchia.
— Perché? Che te ne importa se conosco o no Richard?
— Perché sei mia sorella — disse Leisha. Sapeva bene che non doveva dire "la mia gemella". Nulla faceva infuriare più velocemente Alice.
— Non voglio. — Un attimo dopo il volto di Alice cambiò. — Oh, mi dispiace, Leisha, non volevo sembrare così arrogante. Ma… non voglio farlo.
— Non ci saranno tutti. Solamente Richard. E soltanto per un’oretta. Poi potrai tornartene qui e preparare le valigie per il Northwestern.
— Non andrò al Northwestern.
Leisha la fissò sbalordita.
Alice disse: — Sono incinta.
Leisha si sedette sul letto. Alice rotolò sulla schiena, si scostò i capelli dagli occhi e si mise a ridere. Le orecchie di Leisha si chiusero a quel suono. — Guardati — disse Alice. — Si direbbe che sei tu quella incinta. Ma non lo saresti mai, vero, Leisha? Non finché non fosse il momento giusto. Non tu.
— Come? — disse Leisha. — Abbiamo fatto mettere tutte due i diaframmi…